Cosa succede quando uno dei pionieri della musica elettronica decide di esplorare l’intelligenza artificiale come strumento creativo? Con la sua prima mostra di arti visive “Promptitude” (in programma fino al 7 settembre al MEET Digital Culture Center, il primo Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura digitale in Italia, nato a Milano con il supporto di Fondazione Cariplo), Jean-Michel Jarre ci invita a entrare in un nuovo territorio: un universo in cui i prompt diventano poesia, i ritratti sono generati dal dialogo con un algoritmo, e la tecnologia non è mai fine a sé stessa, ma puro linguaggio emotivo.
Artista, innovatore, instancabile sperimentatore, Jarre non si limita a immaginare il futuro: lo compone, lo visualizza, lo porta in scena. In questa intervista ci racconta come è nato Promptitude, qual è il confine – sempre più sfumato – tra intuizione umana e creatività artificiale, e perché oggi più che mai serve uno sguardo poetico sulla tecnologia.
Tra concerti, installazioni e mostre, da Venezia a Pompei, passando per Berlino e Sofia, l’artista francese intreccia musica, immagini e intelligenza artificiale in un’esperienza sensoriale totale, dove ciò che conta non è spiegare, ma emozionare. Perché, come dice lui stesso, “alla fine, tutto ciò che abbiamo detto non conta. Conta solo una cosa: vi ha lasciato qualcosa dentro? Vi ha smosso, anche solo per un istante?”
Nicoletta Biglietti: Promptitude è un progetto affascinante che fonde arte, tecnologia e poesia. In questa mostra i prompt diventano poesia. Come si trasformano poche parole in visioni complete?
Jean-Michel Jarre: L’idea alla base di questo progetto, e più in generale anche del lavoro con l’AI, è quella di promuovere la visione che non dovremmo né temere né idolatrare l’intelligenza artificiale. Specialmente dal punto di vista creativo, prima la si accoglie, meglio la si può comprendere, esplorare e usare. Anche per valutarne gli eventuali effetti negativi. Ma è importante ricordare che la tecnologia è neutrale: dipende da chi la usa. In ambito creativo, l’IA è come un pennello, o un pittore.
E l’idea di Promptitude è nata proprio così: creare una serie di ritratti metà umani e metà macchine, interrogando l’intelligenza artificiale per dar vita ai lineamenti che avevo in mente. Questo dimostra anche che con i prompt si può essere molto precisi. Si crea quasi un dialogo con l’algoritmo.
Successivamente, ho portato questo dialogo a un altro livello: ho chiesto all’algoritmo, o meglio alla creatura che avevamo generato insieme, «Chi sei? Qual è il tuo problema? Qual è la tua speranza, la tua ansia, la tua preoccupazione più grande?». Ho continuato finché non sono emerse domande interessanti, che valeva la pena condividere con il pubblico.
A quel punto mi sono reso conto che il prompt ha qualcosa in comune con l’haiku giapponese: una forma breve di poesia che può evocare emozioni, reazioni. E, come nella poesia, scrivere un buon prompt richiede tempo. Ma il risultato emotivo può essere immediato – e anche la risposta dell’algoritmo lo è. Mi ha interessato molto esplorare proprio questa dinamica.
Questo progetto fa parte della mia “stagione italiana”, come l’ha definita Maria Glaciac Maté: un periodo in cui sto lavorando con l’IA anche da un punto di vista musicale, con un progetto presentato alla Biennale e due concerti in Italia, uno a Venezia in Piazza San Marco e uno a Pompei. In questi eventi sto usando l’IA in modo significativo, per la prima volta dal vivo, in continuità con Promptitude, per creare un’espressione visiva collegata alla mia musica. È qualcosa di nuovo.
Oggi mi trovo a Sofia, in Bulgaria, e dopo il primo concerto devo dire che sono molto soddisfatto del risultato e della reazione del pubblico. Dimostra che la tecnologia può essere usata in modo poetico, onirico, persino surreale. E penso che, come latini – italiani, francesi – abbiamo un approccio unico alla tecnologia: forse più impressionista, più libero. E sono contento che quello che ho creato non sia qualcosa di fuori controllo, ma al contrario ben integrato nel mio linguaggio.
NB: Dove finisce l’intuizione umana e dove comincia la creatività della macchina?
JMJ: Vede, l’IA lavora raccogliendo dati da un universo vastissimo per poi fornire un output. Ma se ci pensa, anche le idee che ci arrivano come creativi – musicisti, pittori, registi – appaiono all’improvviso. A volte non sappiamo da dove vengano, eppure ci attraggono, ci chiamano a seguirle.
In realtà, anche noi attingiamo a un enorme archivio interiore: la nostra cultura, i nostri ricordi, l’ambiente in cui viviamo, la famiglia, gli amici. Sono dati analogici, sparsi nel nostro subconscio, che all’improvviso si aggregano in un’intuizione, in un’idea che ci sorprende.
Lavorando con l’IA, ho riflettuto molto su questo. Può sembrare strano, ma ho pensato spesso a Italo Calvino. Sono sempre stato affascinato dalla sua immaginazione, dai personaggi strani, folli, inaspettati. Era capace di dare forma all’ignoto, e credo che anche nel mio lavoro con l’intelligenza artificiale cerco di costruire un rapporto simile: una finestra sull’ignoto, sull’immaginazione.
NB: EŌN suona senza mai ripetersi. Che ruolo ha questa musica nell’esperienza visiva?
La relazione tra ciò che si ascolta e ciò che si vede è sempre stata al centro del mio lavoro. E in questo progetto, il suono generato dall’IA è parte integrante del concetto che voglio condividere con il pubblico italiano, a Venezia e Pompei.
Voglio superare i confini della mostra tradizionale, andare oltre ciò che ho presentato a Berlino, e offrire al pubblico dal vivo qualcosa di speciale. Dimostrare che oggi possiamo usare la tecnologia in modo poetico, organico, profondo.
C’è anche un altro legame che mi sta a cuore: l’idea che luoghi come Pompei, per esempio, siano stati progettati da rivoluzionari. Architetti e “acustici” che, tremila anni fa, usarono una tecnologia avanzatissima per l’epoca. Se ti trovi al centro di Pompei, una sola voce senza microfono può essere udita chiaramente tutto intorno: avevano inventato un’acustica incredibile!
Quindi, per me, il modo migliore per rendere omaggio a questi luoghi straordinari è tornarci oggi, nel 2025, con le tecnologie più avanzate, e cercare – nel mio piccolo – di eguagliare quello spirito visionario. Non guardando Pompei come un monumento morto, ma come un concetto ancora oggi rivoluzionario.
NB: Cosa spera che il pubblico porti con sé dopo aver vissuto Promptitude?
JMJ: Spero che dimentichino tutto quello che ho detto. Tutto quello di cui abbiamo discusso. E che siano semplicemente toccati, emotivamente. Questo è ciò che spero con Promptitude, così come con i miei concerti a Venezia e Pompei.
Perché, sa, possiamo parlare quanto vogliamo, scrivere libri su un progetto, spiegare ogni passaggio… Ma alla fine, quello che conta è solo una cosa: il risultato. Sarete toccati emotivamente o no?
Questo è il punto. Spero che, sia con Promptitude sia con le mie performance in Italia, le persone possano dimenticare le parole – anche le vostre, anche le mie – e lasciarsi semplicemente coinvolgere da ciò che vedono e sentono.
Nicoletta Biglietti
(Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia)