PREMESSA: i contenuti che troverete partono dalle suggestioni espresse nell’articolo Arrivederci, Ragazzi: quando gli adolescenti vogliono abbandonare Internet, pubblicato il 23/06/2025
Quando, per la prima volta, mi sono approcciata all’indagine condotta da British Standards Institution dello scorso maggio, intitolata Metà dei ragazzi vuole vivere in un mondo senza Internet, ho subito notato come il riferimento alla “rete delle reti” fosse piuttosto fuorviante, come Internet, secondo me, fosse vittima di una banalizzazione, di un equivoco; per me, si trattava quasi di un crimine culturale. D’altronde, dicevo, anche in contesti autorevoli, sembra che in pochi si chiedano cosa sia davvero internet e cosa invece riguardi altri universi digitali. Anche l’inchiesta britannica, d’altronde,, si muoveva in questa zona grigia. Uno degli dati più significativi, in questo senso, riguardava il fatto che molti degli elementi indicati dall’inchiesta inglese come responsabili di questo allontanamento generazionale riguardassero, più che Internet, i social. Perché se parliamo di ansia performativa, di paura del giudizio, di stress e dipendenza Internet semplicemente è l’autostrada…il veicolo, sono i social.
…Ma se parliamo di social, di cosa, effettivamente, stiamo parlando? Non si rischia, generalizzando, di cadere anche qui in una banalizzazione, in un equivoco, quasi in un crimine culturale?
Se pensi che i social sono il nemico, forse dovresti chiederti cosa siano i social
I social sono un universo dai confini sfuggenti, molto più di quanto non sembri: non è semplice indicarne un numero preciso, delinearne una geografia stabile, farne una mappatura attendibile. Parliamo di centinaia, migliaia di realtà in continua evoluzione e trasformazione, con vite più o meno lunghe, nascite e morti talvolta fulminee, sostituzioni, cambi di nomi, proprietà e identità. Gli utenti attivi sono un’enormità, una verra folla globale: secondo il report Digital 2025 di We are social, parliamo di circa 5,31, il 64,7% della popolazione mondiale. Anche concentrandosi sulle piattaforme leader il range di caratteristiche, target, categoria di contenuti, tipologia di users e prosumers eccetera, varia enormemente. Per chiarire, il primo social per users è Youtube, il cui mantra è broadcast Yourself, praticamente un contenitore di creatività “libera” decisamente vicino all’idea dell’Internet Old School; poi si va al social di messaggeria per eccellenza, Whatsapp; quindi, alla scatola di Commenti, Facebook, percepita come il boomer social per eccellenza -ma evidentemente, a tanti piace ancora- e poi abbiamo il social delle immagini, Instagram e il social dei contenuti brevi, Tik Tok.
Insomma, probabilmente, per comprendere davvero cosa intendono i ragazzi (ma, a dire il vero, anche psicologi, sociologi eccetera) quando affermano che i social sono veicoli di problematiche sociali, bisognerebbe probabilmente entrare nello specifico, cercare di indagare su quelli generano questo tipo di condizioni. E, in questo senso, per una serie di caratteristiche che cercheremo di indagare di seguito, Tik Tok sembra essere il social più imputabile.
L’algoritmo che ti sceglie e lo scrolling infinito
Nata come Douyin, in Cina, nel 2016, l’attuale Tik Tok è frutto della successiva fusione con Musical.ly, app originariamente dedicata a brevi video educativi. Mutata e cresciuta esponenzialmente, in meno di un decennio è diventata oggetto del desiderio dei giganti del tech -parliamo di Oracle, Microsoft, Instagram, tanto per capirci-. Ma, si badi bene, l’interesse non è per i balletti, per Jerry Scotti che gigioneggia amabilmente, per le challenge di Mister Beast e neppure per i gattini. La questione è decisamente più pratica: si tratta dell’algoritmo che regola la piattaforma. Se la necessità di un sistema potente, da questo punto di vista, rappresenta la sopravvivenza stessa di tutte le piattaforme, questo è doppiamente vero per Tik Tok: mentre, in genere, i social sono costruiti, quale più, quale meno, su una contrattazione tra l’iniziativa dell’utente -che sceglie per sé stesso- e l’intervento della piattaforma stessa -che ti propone dei contenuti- Tik Tok è il più sbilanciato sul secondo meccanismo. Deve quindi, per necessità, basarsi su un sistema algoritmico estremamente sofisticato.
Per farla breve, Tik Tok non ottiene dei dati di preferenza diretti, li deduce. E li deduce principalmente attraverso una, ripetitiva, specifica azione: lo scrolling. Sta nella rapidità con cui si scrolla da un contenuto al successivo -e, di converso, nella permanenza su un contenuto piuttosto che su un’altro- a definire le preferenze. Ad indicare ciò che è Per te, per dirla come la sezione apposita, e ciò che non lo è. Ciò che è trend e ciò che non lo è. Da quell’unico gesto del tuo indice.
Un po’ inquietante? Forse. Certamente, dicono gli psicologi, piuttosto rischioso. Già, perché uno dei rischi principali connessi ai meccanismi basati sullo scrolling è il cosiddetto infinite scrolling. Uno scroll ininterrotto e fine a sé stesso. In pratica l’azione tende a tramutarsi da funzionale in compulsiva…ovvero, diventa una dipendenza. I più a rischio sono, manco a dirlo, i giovani: ragazzi, adolescenti…bambini. E se i primi -l’inchiesta inglese lo testimonia- sembrano, se non altro, esserne più o meno consapevoli -ma non è detto che questo sia sufficiente al resistere dal farlo-…ovviamente per i bambini è un’altra storia. E si tratta della categoria più in formazione in termini cerebrali.
I rischi? Si va dalla depressione all’autolesionismo; nella migliore delle ipotesi, il famoso calo dell’attention spam. Perchè, anche se la storiella degli esseri umani che hanno una soglia dell’attenzione inferiore a quella dei pesci rossi è una leggenda metropolitana priva di evidenze scientifiche, è indubbio che la nostra capacità di concentrazione sia, comunque, progressivamente sempre più messa alla prova.
Non ti lascio più
Uno dei dati forse più interessanti emersi nelle ultime rilevazioni sull’uso dei social riguarda la loro capacità di coinvolgimento, ovvero il tempo medio che un utente passa effettivamente sulla piattaforma. Se Youtube ha la corona per il maggior numero di user, è Tik Tok, in realtà, quello che li “trattiene” maggiormente. Una capacità fondamentale per la sopravvivenza -economica- del canale, tanto quanto la presenza di un alto numero di utenti; anzi, in termini strettamente pubblicitari, probabilmente, oggi, più importante per gli inserzionisti. Al di là dell’efficacia del business model (che non a caso ha spinto anche Youtube a creare una sezione di Short) l’aspetto che ci interessa è l’apparente paradosso che questo dato ci consegna: come è possibile che un social basato principalmente su prodotti brevi riesca a trattenere l’utente più a lungo?
Le risposte sono complesse ed articolate e vanno dal target alla costruzione di trend, dalle logiche narrative alla succitata soglia dell’attenzione fino alla capacità del famoso algoritmo di proporre contenuti sempre accattivanti. Certamente, la predisposizione all’infinite scrolling, ontologica alla natura stessa della piattaforma made in China, è un elemento da tenere seriamente in conto.
Il che, però, porta ad una seconda serie di riflessioni: in pratica, l’efficacia di Tik Tok nel coinvolgere gli utenti non sarebbe legata tanto ai contenuti, quanto alla relazione che l’utente instaura con la piattaforma stessa. Anzi, in una dimensione nella quale è la compulsività dell’azione a definire il grado di permanenza, i contenuti diventano quasi irrilevanti. La domanda sorge spontanea: come fanno i creator, in una dimensione di questo tipo, a trattenere sul loro video utenti abituati a scrollare compulsivamente?
Splittiamo tutto: di sludge content e altri stratagemmi
Chi ha avuto modo di utilizzare la piattaforma -ma anche di guardare gli Short di Youtube- quasi sicuramente si è trovato di fronte ad una serie di contenuti apparentemente privi di senso: video costituiti da split screen – ovvero schermi divisi in due o più parti- in cui, ad un contenuto identificabile come “madre” (non importa che si tratti di gag, di balletti, trend di qualche genere eccetera) se ne affianca un altro completamente indipendente (si va dai gameplay alla cucina, da slime che vengono spremuti a spremute d’arancia). Non sembra esserci nessun nesso tra i contenuti, apparentemente nulla che giustifichi questa soluzione di montaggio.
Questo perché effettivamente, non c’è.
Si chiamano sludge content (letteralmente “contenuto fangoso”) e sono dei video concepiti con il fine preciso di trattenere l’utente fino alla fine. In pratica lo schermo viene diviso in più parti per sollecitare continuamente l’attenzione dell’utente ed evitare che scrolli prima che il video termini. Di fronte ad uno sludge content, infatti, tendenzialmente l’osservatore continuerà a spostare l’attenzione da un contenuto all’altro, evitando di muoversi su un video nuovo. La natura rapsodica, deconcentrata e forsennata della fruizione dei video brevi viene spostata dalla piattaforma al singolo prodotto: i contenuti sfruttano, veicolano ed in qualche modo rinforzano quei meccanismi già propri della piattaforma.
McLuhan avrebbe detto: la piattaforma è il messaggio.
Dov’è il content? Dove sono i creator?
Come dicevamo, la capacità di trattenere i propri utenti è un elemento centrale, nell’economia delle piattaforme social. Di conseguenza, lo è anche per coloro i quali di contenuti riempiono le piattaforme stesse, i cosiddetti content creator. Per questi ultimi, infatti, i meccanismi di monetizzazione si stanno sempre di più spostando dal conteggio dei like e degli iscritti alla capacità di “tener attaccato” l’utente sul singolo video. Il che, senza ipocrisie, è un sistema del tutto comprensibile.
Il problema fondamentale non riguarda le molteplici soluzioni che vengono attuate per rendere interessanti o accattivanti i contenuti e, quindi, per non annoiare. È dalla notte dei tempi, da che esiste la narrazione, che la costruzione di contenuti è contestualmente costruzione di forme.
Il problema si crea quando quando la soluzione formale diventa l’elemento principale dell’operazione. Anzi, l’unico. Perché, si badi bene, non è ideata per rendere il risultato interessante o accattivante o divertente o anche solo “intrattenitivo”…ma, mi si passi il termine, unicamente trattenitivo. É quando l’unico obiettivo è intrappolare l’utente in un meccanismo, che si costruiscono relazioni patologiche. Che nascono le dipendenze.
A quel punto, il contenuto diventa non secondario, ma ininfluente, schiacciato dallo stratagemma. E il content creator non è più il divo contemporaneo capace di costruire una relazione magica con i suoi follower…diventa solo un latore di trucchi, come un ciarlatano alla fiera di paese.
É tutto sbagliato, tutto da rifare?
La consapevolezza che esistano degli aspetti problematici all’interno di piattaforme basate sullo scrolling non significa eleggere al male assoluto, né stabilire che tutto ciò che veicolano sia sbagliato e neppure che necessariamente l’uso della piattaforma sia dannoso.
É necessario, però, lavorare sulla consapevolezza, prima di tutto degli utenti: sono loro (o i loro genitori, piuttosto, in molti casi) a dover monitorare l’uso delle piattaforme. E sono i creator a dover decidere se vogliono continuare, per parafrasare lo slogan di Youtube, a “diffondere sè stessi”, piuttosto che delle strategie.
Esattamente come la rete, anche i social sono la casa delle persone che li usano. Ovvero noi. Evitiamo che diventino gli algoritmi che ci sfrattino.
Anna Giunchi
(Executive Editor di «IO01 Umanesimo Tecnologico»)