Indietro

Dal peccato originale al peccato digitale

Etica e trasgressione nella cultura digitale

Di Natalie Zangari 03/10/2025
Abstract

 

Nel corso della storia, il concetto di peccato è stato strettamente legato al corpo, alla carne, alla caduta dell’uomo dalla grazia divina. Dalla hybris greca al peccato originale cristiano, fino alle rappresentazioni della colpa nell’arte, la trasgressione ha sempre avuto una dimensione tangibile, corporale, visibile. Ma cosa accade quando il corpo scompare, si frammenta, si smaterializza? In un’epoca dominata dalla cultura digitale, dall’identità distribuita, dagli avatar e dalla realtà virtuale, siamo ancora capaci di riconoscere il peccato? E se sì, dove si annida, oggi, la colpa? Questo saggio esplora la trasformazione etica del peccato nell’era postumana, indagando come la tecnologia ridefinisca non solo il corpo, ma anche le modalità della colpa, della trasgressione e del giudizio. Attraverso un percorso che intreccia filosofia, arte contemporanea, teologia e cultura dei media, cercheremo di comprendere se il peccato digitale sia davvero senza corpo – e dunque senza conseguenze – o se, invece, stia solo cambiando forma.

 

Keywords

Peccato Digitale – Digital Sin

Trasgressione – Transgression

Cultura Digitale – Digital Culture

Etica – Ethics

Realtà Virtuale – Virtual Reality

 

Il peccato prima del Peccato: colpa e trasgressione nell’antica Grecia tra hybris e miasma

 

 Nella società contemporanea, il concetto di peccato ha attraversato trasformazioni profonde, tanto sul piano culturale quanto su quello semantico. Parlare di peccato, però, rende impossibile – oggi, come ieri – non fare riferimento al contesto in cui siamo più inclini inserire e discutere l’idea stessa di colpa: un contesto in cui l’atto di peccare, di commettere un errore, allontana dal divino.

 Nell’antica Grecia – quando ancora il Cristianesimo non influenzava la cultura e la società, ed eppure già la religione era permeata da una distanza, a tratti incolmabile, tra il mondo immanente e quello divino – esistevano parole diverse per indicare e descrivere le trasgressioni e le colpe umane. Si peccava, ad esempio, di hybris: tracotanza, eccesso, l’atto con cui l’uomo cercava di superare il dio, o quantomeno di eguagliarlo, e che lo portava in modo inesorabile – benché a volte accadesse che vi riuscisse – a cadere rovinosamente, colpito dall’ira numinosa della divinità stessa[1]. Pensiamo ad Aracne, trasformata in ragno dopo aver osato sfidare la dea Atena, superandola in abilità tessile[2]; o a Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, rinunciando alla propria libertà e venendo incatenato a una roccia, sottoposto al supplizio eterno di un’aquila che gli divorava il fegato, rigenerato ogni giorno[3].

 Un altro termine per indicare il peccato mitologico greco è miasma: colpa rituale o morale che contamina non solo l’individuo, ma l’intera comunità[4]. È il caso, su tutti, di Edipo, che – dopo aver ucciso il padre e sposato la madre, a sua insaputa – diventa re di Tebe e non riesce a spiegarsi l’origine della terribile peste che devasta la città. Solo Tiresia – l’indovino cieco che, proprio nel non vedere, è capace di osservare l’invisibile – saprà rivelargli la verità sul parricidio e sull’incesto. Edipo, una volta consapevole, sceglierà di autoesiliarsi e accecarsi, un atto simbolico  di rinuncia assoluta alla visione del mondo, alla luce che illumina la sua vita, ma anche di accettazione della propria maledizione[5].

Nei miti e nelle tragedie greche non si parlerà mai di “peccato” in senso stretto, ma si useranno parole diverse per indicare quei gesti che segnano deviazioni da una vita vissuta in nome di una religiosità pura. Proprio nel loro desiderio di ascendere al divino, uomini e donne si condannano a una perpetua insoddisfazione. L’umano si misura con l’infinito non perché possa possederlo, ma perché non può fare a meno di desiderarlo. È questa tensione a rendere l’uomo tragico: sa di essere finito, eppure desidera l’eternità. Nel voler farsi dio, l’uomo non rinnega la propria umanità, ma la esalta. La tensione verso l’ideale, la giustizia assoluta, la bellezza pura, è ciò che lo distingue da ogni altra creatura. È l’imperfezione che desidera perfezione, il finito che sogna l’infinito[6].

 

Dal frutto alla carne: il peccato originale tra teologia e psicoanalisi

 

Nella Genesi – e, più in generale, nel pensiero cristiano classico – il peccato originale ha il compito di spiegare l’origine della colpa umana[7]. Marcato dal limite e dalla libertà negata (e poi violata), si manifesta nel morso alla mela proibita, che racconta eziologicamente la condizione umana di corpo macchiato, ferito dal riconoscersi nudo e colpito dalla vergogna. L’imbarazzo – o, peggio, lo scorno – di ritrovarsi senza abiti e di vedere per la prima volta il proprio corpo e riconoscerlo svestito, porta Adamo ed Eva a nascondersi tra le fronde, cercando riparo dai passi di Dio nel Giardino dell’Eden. È proprio in quell’istante che Dio comprende l’accaduto: l’uomo e la donna hanno disobbedito, hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e per questo motivo verranno condannati a una vita di fatiche e dolori[8]. Il primo a formulare in modo sistematico la dottrina del peccato originale è Sant’Agostino[9], seguito poi da Tommaso d’Aquino, che nel XIII secolo integra il pensiero agostiniano con la filosofia aristotelica[10]. A questo punto, il peccato originale non è più soltanto un atto, ma una condizione trasmessa di generazione in generazione. Dotato di libero arbitrio, l’uomo – ingannato dal serpente – ha scelto di infrangere il divieto e ora conosce il bene e il male, ma, soprattutto, può compierli. Alszeghy e Flick[11] interpretano il racconto della Genesi come una narrazione esistenziale: un passaggio dall’armonia edenica alla condizione decaduta dell’uomo. Il corpo, luogo del peccato originale, è anche luogo di sofferenza redentrice, di sacrificio, di prova spirituale. I santi lo mortificano, lo espongono al digiuno, al freddo, non per odio di sé, ma per liberarsi dal desiderio e avvicinarsi a Dio. Questa visione del corpo come luogo di allontanamento dal divino è spesso descritta da San Paolo, per il quale la colpa è entrata nel cosmo per mezzo di un solo uomo rendendo da quel momento la carnalità sinonimo di peccato[12].


Nel medioevo e nell’età moderna la visione religiosa sottolinea il corpo come luogo di tentazione e miseria umana: Sant’Agostino, ricordando le gioie spensierate dell’infanzia, le giudica già avviluppate nel campo della carne e scatenanti “passioni pestilenziali”[13] nell’anima. In questo contesto, il solo corpo a risultare esente dal peccato, è quello di Cristo, “tempio dello Spirito Santo”[14], diverso da tutti coloro che – vivendo nella costante tentazione – devono sopportare gli impulsi terreni. Risulta interessante, dunque, tutta quella tendenza che identifica e collega il peccato originale  – in origine peccato di orgoglio intellettuale –  all’idea di sessualità: «l’ascendente di sant’Agostino, in particolare, sarà enorme. A parte l’eccezione degna di rilievo di Abelardo e dei suoi discepoli, i teologi e i filosofi ammetteranno che il peccato originale è connesso al peccato sessuale, mediante la concupiscenza»[15]

La psicoanalisi ricerca un significato antropologico e archetipico nell’evento edenico qui sopra narrato: in Totem e tabù[16], Freud non parla esplicitamente di peccato originale in senso teologico, ma ne propone una lettura simbolica e psicoanalitica; indaga il mito della caduta come narrazione arcaica di dinamiche inconsce che definiscono l’essere umano e che scatenano quello che in genere chiameremmo senso di colpa. Ipotesi centrale per spiegare la primordialità di questa sensazione di fallacia dell’uomo è quella legata all’idea di un parricidio originario – i figli uccidono il padre del clan per prenderne il potere – che viene rimosso e mitizzato, generando una sorta di morale arcaica, che può essere comparata a quella di peccato originale[17]. Anche l’espulsione dall’Eden diventa, per Freud, metafora del passaggio traumatico dall’infanzia all’età adulta: si perde l’innocenza, si affacciano i primi impulsi, si sperimenta la colpa legata alla sessualità. Freud secolarizza il peccato originale, trasformandolo in archetipo del conflitto tra natura e cultura, tra colpa e desiderio, norma e pulsione corporea[18].

 

Il corpo come spazio di redenzione ed esposizione del peccato: l’Azionismo Viennese e la Body Art

 

Nell’arte contemporanea, è proprio il corpo a diventare il mezzo per esporre – ed espiare – un corpo ferito, lacerato, un corpo segnato da cicatrici che, nel secolo breve, tornano a sanguinare dopo le due guerre mondiali[19]. Appaiono allora l’Azionismo Viennese, la Body Art e tutte le correnti che mirano a creare una nuova iconografia del dolore, fondata sull’espiazione di un peccato che riguarda l’umanità intera: un miasma che ritorna e che continua a punire l’uomo che, erigendosi a divinità, ha tentato di cancellare intere etnie, macchiando il mondo di colpe indelebili.

 Nel Novecento, le ferite collettive – documentate o dimenticate – portano l’arte a smettere di rappresentare il dolore e a cominciare a incarnarlo. Se il corpo non è più simulacro – come scrive Angela Vettese ne La rivolta del corpo[20] – allora può diventare campo d’azione, carne viva da sacrificare, ma anche gesto che buca l’immagine e si fa presenza reale.

 Nell’Azionismo Viennese, creare sconcerto, abitare la carne viva, traumatica e traumatizzata, è fondamentale per agire contro una società alto borghese, repressiva e conservatrice. Rudolf Schwarzkogler inscena mutilazioni simboliche, bendaggi, incisioni, operazioni chirurgiche fittizie in ambienti candidi e sterili[21]; Hermann Nitsch mette in scena rituali dionisiaci, orge misteriose e drammatiche, dove la teatralità del gesto diventa atto collettivo di espiazione pubblica[22]. Sangue, sesso, carne: sono questi gli alfabeti con cui ancora oggi si parla – e si mette in scena – una forma nuova di peccato. Il tema persiste, mutando solo di forma, trasformandosi in una rinnovata iconografia. Nell’atto autolesionista risuona un richiamo quasi sacrificale, un’eco cristologica: attraverso il sangue, le piaghe, la ferita, si cerca una via che conduca alla grazia[23].

 Gina Pane, nella sua Azione sentimentale, realizza una performance in cui la bellezza dei petali di rosa e il dolore delle spine si annullano a vicenda, rendendo inscindibili bellezza e ferita. L’artista si dona al pubblico e lo raggiunge empaticamente attraverso la sofferenza che, da individuale, diventa collettiva, condivisa, esposta[24]. Come una moderna Ifigenia, la Pane è insieme sposa e vittima sacrificale: i suoi abiti bianchi evocano purezza e beatitudine, ma il suo altare è un’ara sacrificale. Se Ifigenia fu condotta alle navi degli Achei con l’inganno, Gina Pane sceglie consapevolmente il proprio sacrificio e lo restituisce in dono. La sua carne non chiede vendetta, non chiede pietà: chiede di essere vista, guardata, ascoltata.

L’idea del sacrificio come mezzo per ottenere perdono e grazia si innesta profondamente nelle modalità di narrazione del corpo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento: un corpo che, ancora una volta, riprende la tradizione cristiana per rimetterla in scena nel presente[25].

 

Il peccato senza carne nell’epoca della smaterializzazione dell’identità

 

Stando a quanto visto e trattato finora, l’idea di peccato è spesso associata a quella di corporeità[26]: il tangibile, tutto ciò che può essere sperimentabile con i sensi può anche essere sede di colpe e di errori umani, a differenza del trascendente, che proprio nella sua assenza di peso e fisicità, ci parla solitamente di un registro legato all’idea di grazia, divinità, beatitudine. Ma se il corpo è il luogo del peccato, dove si sposta il peccato quando il corpo inizia a smaterializzarsi? Dove attecchiscono le colpe, gli errori, le trasgressioni umane? Possiamo parlare del peccato in un’epoca in cui le vicissitudini quotidiane si muovono – oltre che nel reale – spesso anche nel digitale?

Nasce oggi, quindi, la figura del cyborg, un essere simbolico ibrido che rappresenta le idee postumane e abbandona il corpo in quanto pura carne per ricercare invece un superamento delle dicotomie e dei binomi che da sempre hanno caratterizzato la filosofia e la società occidetale[27]. Il cyborg non abbandona totalmente la carne, ma la ibrida con altri sistemi di prolungamento e potenziamento, decretando la morte del corpo come da sempre lo abbiamo vissuto e conosciuto e annunciando la fine della sua singolarità irripetibile, segnando l’inizio della sua scomposizione in elementi replicabili: Baudrillard ne parla a proposito della clonazione, ma la “segmentazione” della corporeità allude già alla sua riduzione a codice. In altre parole, il corpo cede il passo all’astrazione digitale, diventando una formula riproducibile, un simulacro privo di opacità[28]. Già Benjamin parlava dell’epoca d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[29], ma ciò davanti a cui ci troviamo oggi è la riproducibilità – priva di materia – della nostra persona, un’essenza che abita nella rete e che vive al suo interno.

Per qualcuno è addirittura normale parlare di uno sdoppiamento di identità, una proliferazione di essenze “altre” che vivono sulle piattaforme online e che – ad un certo punto – continuano ad esistere in maniera indipendente rispetto al corpo che le ha create e alla mente che le ha generate. Secondo Davide Sisto, in altri termini, la mole imponente di documenti e tracce della nostra esistenza accumulati sui social network – sempre più simili ad archivi digitali – consente la nascita di un nuovo tipo di individuo, generato dall’autonomia dei dati[30]. Dopo la morte biologica, ciò che rimane di noi online non è più un’estensione della nostra persona, ma ne diventa una vera e propria sostituzione. In questo processo, la virtualità – con la sua intrinseca ambiguità ontologica – si afferma come componente essenziale della nostra identità.

 Nel cinema e nei prodotti seriali, il tema del riportare in vita persone care grazie alla tecnologia, è qualcosa di spesso trattato e raccontato in modo fantascientifico: un esempio significativo è il film Marjorie Prime (2017), in cui una donna anziana interagisce con un ologramma che riproduce il marito scomparso[31]. L’intelligenza artificiale che lo anima costruisce la propria identità attingendo a ricordi familiari e informazioni reperite online. Tuttavia, questi ricordi risultano frammentari e parziali, e ciò che ne emerge è un’entità che appare «simile ma […] diversa» dall’originale. Questo scenario mette in luce come la continuità tra l’esistenza biologica e quella digitale si fondi sulla memoria – individuale e collettiva – di chi resta, sollevando interrogativi profondi sull’identità oltre la morte. Un tema simile viene esplorato anche in Be Right Back, episodio della serie Black Mirror[32], in cui una donna affranta dalla perdita del compagno affida i suoi ricordi a un servizio di intelligenza artificiale che ricostruisce una replica digitale dell’uomo, basandosi su contenuti lasciati online. Come in Marjorie Prime, la figura che ne emerge è una simulazione: evocativa, ma inevitabilmente incompleta, perché fondata su memorie parziali, dati selezionati e algoritmi predittivi. Entrambe le opere sollevano interrogativi cruciali sull’autenticità di queste presenze postume e sulla loro capacità di sostituirsi alla persona reale. In questo senso, la loro esistenza riflette pienamente l’affermazione della virtualità come nuova dimensione ontologica: gli archivi digitali diventano terreno fertile per la nascita di identità autonome, capaci di sopravvivere alla morte biologica e di riarticolare radicalmente il concetto stesso di “sé”[33]. In fondo, la tecnologia sembra oggi assolvere la stessa funzione che nel mito fu di Orfeo: tentare di strappare alla morte ciò che è stato perduto, e generare un’esistenza che non conosca fine, ma resti perennemente in fieri.

 Il tema dell’identità online è, in questo periodo storico, estremamente discusso: avatar e realtà virtuale offrono forme sempre nuove di corporeità virtuale e ambienti come il metaverso e i videogiochi permettono di modellare e vivere all’interno di corpi e fisicità dematerializzate che vengono scelte e selezionate da noi stessi. Filosofi contemporanei parlano di un “meta-corpo” o di una ontologia digitale[34]: non più carne e ossa, bensì interfacce, dati ed esperienze condivise.

 L’avatar, da questo punto di vista, rappresenta la massima espressione della nostra capacità – e volontà – di vivere anche in mondi altri[35]. Quando parliamo di avatar, ci riferiamo a rappresentazioni grafiche e virtuali di visitatori e abitanti di siti web e videogiochi. Parliamo di un “noi” che ci rappresenta tanto quanto lo fa un abito che scegliamo di indossare o un accessorio scelto tra molti. L’avatar è noi in un mondo in cui fisicamente non possiamo accedere; è la nostra possibilità di esistere in un universo che altrimenti ci sarebbe precluso.

Nell’induismo, il termine avatāra indica la discesa e l’incarnazione di una divinità, Vishnu, sulla Terra e la sua manifestazione sensibile[36]. Metaforicamente parlando, se ogni realtà digitale necessita di un avatar per potervi accedere, il processo richiesto è una sorta di divinizzazione di noi stessi: un’incarnazione codificata (e non materica o carnale) della nostra persona in un Olimpo dove il nostro corpo va abbandonato in favore di uno nuovo, fatto di dati e numeri.

 Diventiamo, quindi, dèi immortali? Entrando online, stiamo forse raggiungendo quella divinizzazione di noi stessi che da sempre inseguiamo e che mai abbiamo realmente afferrato? Sembrerebbe proprio un ritorno a quella hybris greca di cui si è parlato all’inizio di questo saggio, ma – a differenza delle mitologiche vendette – qui nessuno ci punisce, non subiamo l’ira divina per la nostra tracotanza. Anzi, siamo incoraggiati a diventare avatar, a smaterializzarci, a esistere in una società che si muove non solo nel mondo fisico, ma anche in quello virtuale.

 A pensarci bene, però, forse proprio questa assenza di punizione è il peccato più grande: l’illusione che non ci sia colpa, né conseguenze, nell’abbandonare ciò che siamo per diventare qualcos’altro.

 

Metaetica e antropologia del peccato digitale

 

In un mondo come quello delle innovazioni tecnologiche, in cui stiamo ancora cercando di comprendere la nuova morfologia del peccato e come questo venga rappresentato in un universo privo di fisicità, alcune persone cercano un perdono e un’assoluzione tecnologica per peccati che il loro corpo ha compiuto nel mondo reale. Sull’onda delle innovazioni avanguardistiche, infatti, la teologia sperimenta nuove frontiere spirituali: emblematica in tal senso è l’installazione Deus in machina, realizzata grazie alla collaborazione del Centro di Realtà Immersive del Lucerne University of Applied Sciences and Arts e della Facoltà di Teologia Pastorale della stessa università[37].

Nella chiesa della città svizzera è possibile dialogare con un avatar digitale di Gesù Cristo, all’interno di quella che sembrerebbe essere una vera e propria struttura confessionale. Per quanto sia appurato che l’avatar non possa amministrare sacramenti reali, questo non toglie che l’esperienza che i fedeli possono vivere grazie ad esso possa possedere tutte le caratteristiche spirituali e trascendenti di una normale confessione religiosa. Apriamo dunque le porte ad una vera “metaverse theology”[38], che problematizza le pratiche religiose svolte in ambienti come Second Life o piattaforme immersive VR. Un ulteriore nodo critico è rappresentato dal fenomeno delle avatar churches: vere e proprie chiese digitali, popolate da fedeli-avatar e “officiate” da pastori virtuali. Questi spazi, pur mossi dall’intento di raggiungere una nuova generazione di credenti, finiscono spesso per ridefinire l’antropologia cristiana. L’essere umano, liberato dal corpo fisico, assume in rete una forma fluttuante, molteplice, potenzialmente divina. L’utente-avatar può impersonare sé stesso, ma anche un dio: il rischio è che l’uomo si sostituisca a Dio non per ribellione prometeica, ma per dilatazione ludica e tecnologica dell’identità. È un peccato “nuovo”, non contro il corpo ma senza il corpo. In definitiva, il digitale non è solo un nuovo spazio comunicativo, ma un nuovo campo di prova etica. Qui il peccato si ridefinisce come scollamento tra identità e presenza, tra simulacro e intenzione, tra corpo e spirito. E la sfida non è più soltanto liturgica o dottrinale, ma profondamente antropologica[39].

 È in questo scarto tra immagine e intenzione che si insinua un’inedita forma di colpa, non più legata al corpo fisico, ma alla sua rappresentazione simulata. Il metaverso e i mondi digitali diventano così lo spazio di una nuova etica, un’etica che si piega – in prodotti visivi come la serie Westworld[40]– ai desideri dei potenti e dei ricchi. Nelle puntate della serie firmata HBO, la storia si svolge in un parco divertimenti a tema Wild West, in cui facoltosi e ricchi ospiti possono sfogare le loro più selvagge fantasie sugli androidi che abitano il parco, senza timore di ritorsioni, confermando, in qualche modo, che siano proprio le ritorsioni possibili a generare il senso di colpa e, quindi, a dare alla luce il peccato[41]. Ma è proprio così? Oppure il peccato – pur trasfigurato dalla tecnologia – continua a declinarsi secondo le stesse antiche inclinazioni dell’animo umano? Superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria: i sette peccati capitali, codificati nella tradizione cristiana, riemergono oggi in nuove forme e linguaggi all’interno dell’arte digitale e dei media tecnologici. Non più affreschi, sculture o pale d’altare, ma opere interattive, intelligenze artificiali, avatar e installazioni che interrogano la nostra relazione con il desiderio, l’eccesso e la colpa.

 A livello socioculturale, l’emergere e la pervasività dei social network e, più in generale, del web, costituiscono una radicalizzazione di alcuni tratti comportamentali propri della natura umana. Un esempio emblematico è rappresentato dal fenomeno noto come Linkedin Envy, ovvero quel senso di inadeguatezza e insicurezza che si manifesta, in particolare tra i membri della Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010), di fronte all’esposizione costante e spesso ostentata dei successi professionali altrui[42]. Nel contesto delle piattaforme digitali, l’ex Twitter – oggi X – si configura sempre più come uno spazio caratterizzato da dinamiche di intolleranza e aggressività verbale, fino a divenire teatro di vere e proprie campagne di linciaggio collettivo, comunemente definite shitstorm[43]. Instagram e TikTok, dal canto loro, si impongono come ambienti in cui si esibiscono forme di apatia e desiderio in una modalità iper-spettacolarizzata[44]: alla pigrizia estetizzata si affianca una rappresentazione della lussuria che trova ulteriore espansione su piattaforme come OnlyFans, o attraverso le logiche rapide e superficiali dello swipe tipiche delle applicazioni per incontri, come Tinder. Anche il vizio della gola, inteso sia in senso materiale che simbolico, assume nuove declinazioni in un ecosistema digitale iperconnesso: il desiderio immediato trova soddisfazione attraverso un semplice gesto – un click – che consente l’accesso istantaneo a cibo, bevande o beni di consumo, riducendo al minimo ogni forma di attesa o sforzo.

 

Distribuzione della colpa: arte, tecnologia e la nuova etica del peccato digitale

 

Negli ultimi anni, anche l’arte ha cercato di parlare di questa inedita morfologia del peccato, mettendo in evidenza come la società online sia molto spesso una copia di quella reale. Emblematico, in questo senso, è il progetto Excellences & Perfections (2014) dell’artista argentina Amalia Ulman, realizzato interamente attraverso il suo profilo Instagram.

 L’opera è, a tutti gli effetti, una performance digitale, in cui l’artista sembra inscenare una trasformazione personale vera e propria, testimoniata da post e storie pubblicate sul suo profilo[45]. La metamorfosi fittizia della Ulman vuole adottare e mostrare, in modo apparentemente autentico, gli stereotipi femminili legati alla bellezza, al successo, alla sessualità, ma anche alla vulnerabilità emotiva. La narrazione visiva alimentata dall’artista e lo storytelling perseguito dal suo profilo hanno suscitato nel pubblico reazioni che fluttuavano tra lo sconcerto e il biasimo morale, scatenando invidia, giudizi negativi e una forte sessualizzazione del suo corpo (che ha oltretutto creato molti problemi alla Ulman a livello di collaborazioni lavorative).

L’indignazione suscitata dalla presunta ostentazione del corpo, del denaro o della chirurgia estetica dimostra quanto persistano, anche nel contesto virtuale, codici morali che sanzionano l’esibizione del corpo femminile, delimitandone i confini di accettabilità morale e sociale, confermando come proprio il corpo – anche quando visto solo in fotografie e fatto solo di pixel – possa continuare a dar luce a nuove colpe virtuali.

Se in Excellences & Perfections il peccato viene incarnato dall’artista, ma anche da chi osserva e partecipa passivamente alla performance online della Ulman – che non fa altro che costruire un’identità femminile iperconforme alla società odierna – e il corpo diventa innesco per ottenere commenti negativi, sdegno e collera, nell’opera The Others (2011) di Eva e Franco Mattes, il discorso su colpa e peccato si sposta sul piano dello sguardo e della responsabilità[46].

 L’installazione consiste nella proiezioni di migliaia di fotografie personali di persone comuni, recuperate da computer infettati da virus e rese pubbliche senza il consenso dei proprietari delle immagini. Il peso morale del gesto, il furto digitale, potrebbe sembrare totalmente nelle mani degli artisti, poiché colpevole è colui che espone, che compie l’atto di sottrarre immagini al privato per trasferirle nello spazio dell’arte. Eppure, la dimensione etica dell’opera non si esaurisce qui. Come per Excellences & Perfections, anche per ciò che concerne The Others non possiamo non parlare della dinamica ambigua e disturbante in cui è coinvolto lo spettatore stesso, che qui non prende parte all’opera con commenti e reazioni ai post, ma lo fa guardando e sapendo di guardare delle immagini rubate. Il senso di colpa è, dunque, implicito nel momento in cui si decide di vedere l’opera e il peccato siede direttamente in quella curiosità che ci spinge a desiderare di guardare ciò che dovrebbe restare a noi invisibile: l’invasione della privacy altrui diventa l’opera d’arte stessa.

In un’ulteriore stratificazione del discorso etico, The Others solleva anche una questione più sottile: quella della responsabilità delle tecnologie stesse.

 Ogni responsabilità degli artisti, infatti, viene scaricata sul virus che, infettando i computer, ha permesso ai Mattes di ottenere gli scatti oggetto dell’opera: il virus che contamina i dispositivi agisce come una serratura difettosa che permette ad estranei di entrare in casa. Ma ci si chiede mai se sia la serratura ad essere colpevole, quando un ladro forza la porta?

 Nell’universo digitale, l’infrastruttura tecnica è raramente chiamata in causa nei processi morali: la macchina viene, nella quasi totalità dei casi, percepita come neutrale, come fosse un semplice mezzo. Eppure, in questo caso, The Others esiste proprio grazie alla vulnerabilità del sistema informatico, che nel suo essere corrotto tecnologicamente, rende possibile l’atto violento della sottrazione. La colpa, allora, si diffonde in maniera più sistemica, coinvolgendo non solo chi guarda o chi espone, ma anche l’ambiente tecnologico che consente – o addirittura facilita – il verificarsi del peccato.

Seguendo questa riflessione, apriamo una più ampia critica alla retorica della neutralità tecnologica: i dispositivi digitali non sono strumenti innocenti, bensì talvolta agenti che, attraverso le loro architetture e i loro difetti, partecipano alla costruzione di dinamiche di potere, di controllo e di trasgressione.

 Quest’idea della tecnologia e della macchina in qualche modo “colpevole” affonda le sue radici in una lunga storia di attribuzioni morali agli strumenti, soprattutto in ambito militare. Celebre è il caso della “falsa allerta” sovietica del 1983, in cui il sistema informatico di monitoraggio lanciò un segnale di attacco nucleare imminente da parte degli Stati Uniti. Fu solo grazie al tenente colonnello Stanislav Petrov[47], che scelse di non fidarsi della macchina, che si evitò una guerra globale. In quel caso, la responsabilità umana riuscì a frenare quella automatica, ma l’evento segnalò una trasformazione: la macchina non era più solo uno strumento, bensì un soggetto potenzialmente responsabile del destino di milioni di vite. È innegabile che, a partire dagli anni Cinquanta, le tecnologie digitali di sorveglianza e controllo abbiano in qualche modo contribuito alla costruzione di un mondo chiuso e autoreferenziale, con sistemi automatizzati, schermati e protocollati. In questo contesto, la colpa diventa impalpabile, dispersa tra i livelli del sistema[48].

 Per avere una teorizzazione di questo concetto di redistribuzione della colpa, che include tra le parti in cui questa nuova forma di peccato viene divisa anche l’infrastruttura tecnologica, dobbiamo aspettare Bruno Latour che già in Non siamo mai stati moderni[49] e, successivamente, nella sua teoria dell’Actor-Network (ANT)[50], propone una visione simmetrica della responsabilità, in cui oggetti tecnici e soggetti umani coesistono come attanti in grado di agire e influenzare gli eventi.

Proviamo, dunque, a tornare ai Mattes e a The Others: in quest’opera il virus non è uno strumento passivo, ma un mediatore attivo e, in quanto tale, è complice nella messa in scena del peccato digitale. Questo approccio dissolve il confine netto tra autore del gesto e mezzo utilizzato, introducendo una moralità distribuita, complessa e non antropocentrica, che ripercorre i passi tracciati da Donna Haraway nel suo Manifesto Cyborg[51], invitando a ripensare alla relazione uomo-macchina come ad una zona ibrida: parlare di una “colpa della macchina” non vuole essere una forma di deresponsabilizzazione dell’essere umano, ma un riconoscimento di questo territorio che nasce dall’azione condivisa tra software, hardware, vulnerabilità sistemiche e desiderio umano.

È proprio in questa moltiplicazione indistinta, però, che si cela (e ora si svela) la natura più profonda del peccato digitale: una colpa senza corpo, ma non per questo innocente. Se il corpo, per secoli, è stato luogo e spazio di espiazione, ma anche di nascita della colpa, oggi anche la rete diventa scenografia e attrice in questo teatro virtuale.

Nel corso di questo saggio abbiamo attraversato il mito e la teologia, l’arte e il cyberspazio, per mostrare come la colpa si sia dislocata, smaterializzata, distribuita tra umano e macchina. Il peccato digitale non è la fine della colpa, ma la sua mutazione: una trasgressione diffusa, spesso invisibile, a cui dobbiamo imparare a rispondere con nuove forme di etica, consapevolezza e responsabilità.

 Forse stiamo finalmente imparando dove cercare il peccato, in quest’epoca complessa: non è nel virus, né nel codice; non abita solo in noi, né nello sguardo degli altri. Vive in una zona ibrida, fatta di attriti, desideri e connessioni, un territorio in cui umano e macchina si confondono, si alimentano, si accusano a vicenda e – proprio in quel tribunale di colpe trasmesse – danno forma a una nuova trasgressione distribuita e replicabile – e per questo tanto più facile da ignorare – che nel suo essere parcellizzabile ci deresponsabilizza.

 Forse, mentre scrivo, questo stesso saggio si sta già duplicando altrove, un’immagine del mio desktop che circola senza volto, senza firma.

Di questo furto incolperò The Others – sempre ammesso che si capisca, prima o poi, chi siano davvero questi Altri: gli uomini o le macchine?

 

Bibliografia

 

P. Aksenov, Stanislav Petrov: The man who may have saved the world, in «BBC News», 26 settembre 2013.  https://www.bbc.com/news/world-europe-24280831 (consultato il 15 aprile 2025).

Z. Alszeghy e M. Flick, Il peccato originale in prospettiva evoluzionistica, Extractum Gregorianum, XLVII, 2, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1966, pp. 201-225.

F. Alfano Miglietti, Nessun tempo, nessun corpo… : arte, azioni, reazioni e conversazioni, Skira, Milano 2001.

J. P. L. Arceno, Theology of Virtual Realism: Metaverse, VR Church, and Real Experience, «Global Network for Digital Theology», s.l., 2022.

J. Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2025.

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.

R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (Vol. 1), DeriveApprodi, Roma 2020.

R. Braidotti, Il postumano. Saperi e soggettività (Vol. 2), DeriveApprodi, Roma 2022.

W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 2003.

F. Carraturo et al., Envy, social comparison, and depression on social networking sites: a systematic review, «European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education», XIII, 2, 2023, pp. 364-376.

M. T. Catena, Breve storia del corpo, Mimesis edizioni, Milano 2018, p.47.

D. Chatzakou et al., Mean birds: Detecting aggression and bullying on Twitter, Atti del convegno ACM sulle Web Science, New York 2017.

L. Cova, Peccato originale. Agostino e il Medioevo, Il Mulino, Bologna 2014.

T. D’Aquino, Compendio di teologia e altri scritti, UTET, Milano 2016, I-II, qq. 81-83; II-II, qq. 163-164.

G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

P. N. Edwards, The Closed World: Computers and the Politics of Discourse in Cold War America (Inside Technology), MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1996.

Esiodo, Teogonia. Testo greco a fronte, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 2023.

L. Floridi, The Onlife Manifesto, Springer, Berlino 2015.

J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton, Roma 2014.

S. Freud, Totem e tabù – Psicologia delle masse e analisi dell’io, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

A. Gonzenbach, Bleeding borders: abjection in the works of Ana Mendieta and Gina Pane, «Letras Femeninas», XXXVII, 1, 2011, pp. 31-46.

D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 2018.

N. K. Hayles, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999.

A. Kassam, Deus in machina: Swiss church installs AI-powered Jesus, «The Guardian», 21 novembre 2024. https://www.theguardian.com/technology/2024/nov/21/deus-in-machina-swiss-church-installs-ai-powered-jesus (consultato il 6 aprile 2025).

K. Kris e E. Kurz, The Image of the Artist in Performance Art: The Case of Rudolf Schwarzkogler, in Margins, Minima, Media etc. The Political Meaning of Conceptual Art, a cura di Leszek Brogowski, «Sztuka i Dokumentacja», VIII, 35, pp. 9-19.

B. Latour, La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Einaudi, Torino 1998.

B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2018.

J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Laterza, Roma, 2005, p. 38, citato in M. T. CATENA, Breve storia del corpo, Mimesis edizioni, Milano 2018, p.47.

L. Lombardi Vallauri, Nera Luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, Le Lettere, Firenze 2001.

E. e F. Mattes, The Others, installazione, 2011. Cfr. The Others (2011), sito ufficiale di Eva & Franco Mattes. https://0100101110101101.org/the-others/ (consultato il 15 aprile 2025).

E. Modena, Immersioni. La realtà virtuale nelle mani degli artisti, Johan & Levi, Milano 2023.

Ovidio, Metamorfosi, Libro VI, a cura di A. Barchiesi, Mondadori, Milano 2005.

Sacra Bibbia, La, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2008.

Sant’Agostino, La città di Dio, a cura di P. Pellegrino, Città Nuova, Roma 2016.

San Paolo, Lettera ai Romani, in La Sacra Bibbia, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2008.

M. Sarner, The age of envy: how to be happy when everyone else’s life looks perfect, «The Guardian», 9 ottobre 2018.

https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/oct/09/age-envy-be-happy-everyone-else-perfect-social-media (consultato il 15 aprile 2025).

R. Schneider, The Explicit Body in Performance, Routledge, New York-Londra 1997.

D. Sisto, Gli spettri digitali della persona: vivere e mai morire online, in Culture della persona: itinerari di ricerca tra semiotica, filosofia e scienze umane, in Culture della persona: itinerari di ricerca tra semiotica, filosofia e scienze umane, a cura di J. Ponzo e Gabriele Vissio, Accademia University Press, Torino 2021.

Sofocle, Edipo Re, in Il teatro greco. Tragedie, BUR Rizzoli, Milano 2010.

A. Ulman, Excellences & Perfections, performance su Instagram, 2014. Cfr. S. Ruigrok, How this 2014 Instagram hoax predicted the way we now use social media, «Dazed Digital», 14 marzo 2018. https://www.dazeddigital.com/art-photography/article/39375/1/amalia-ulman-2014-instagram-hoax-predicted-the-wa y-we-use-social-media (consultato il 15 aprile 2025).

A. Vettese, La rivolta del corpo. Gli artisti che lo hanno usato, spinto al limite, liberato, Laterza, Roma-Bari 2024.

 J-P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1981.




 Natalie Zangari

 

(Natalie Zangari è PhD in Arti Visive e Umanesimo Tecnologico presso l’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia e curatrice indipendente. La sua ricerca di dottorato indaga la tecno-spiritualità e le riconfigurazioni contemporanee del sacro nella cultura digitale, esplorando come ambienti immersivi, estetica glitch e casualità algoritmica aprano nuovi spazi di trascendenza nell’arte e nell’esperienza.)































 





 



 



1)

J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1981.

2)

Ovidio, Metamorfosi, Libro VI, a cura di A. Barchiesi, Mondadori, Milano 2005.

3)

Esiodo, Teogonia. Testo greco a fronte, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 2023.

4)

J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton, Roma 2014.

5)

Sofocle, Edipo Re, in AA.VV., Il teatro greco. Tragedie, BUR Rizzoli, Milano 2010.

6)

W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 2003.

7)

Genesi, capp. 2–3, in La Sacra Bibbia, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2008.

8)

Ibidem.

9)

Sul tema del peccato originale dal punto di vista biblico si legga Sant’Agostino, La città di Dio, a cura di P. Pellegrino, Città Nuova, Roma 2016, ma anche L. Cova, Peccato originale. Agostino e il Medioevo, Il Mulino, Bologna 2014 e L. Lombardi Vallauri, Nera Luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, Le Lettere, Firenze 2001.

10)

T. D’Aquino, Compendio di teologia e altri scritti, UTET, Milano 2016, in particolare I-II, qq. 81-83; II-II, qq. 163-164 per i temi di causa, pena, tentazione.

11)

Z. Alszeghy, M. Flick, Il peccato originale in prospettiva evoluzionistica, Extractum Gregorianum, XLVII, 2, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1966, pp. 201-225.

12)

San Paolo, Lettera ai Romani, 5:12, in La Sacra Bibbia, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2008.

13)

M. T. Catena, Breve storia del corpo, Mimesis edizioni, Milano 2018, p.47.

14)

Ibidem.

15)

J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Laterza, Roma, 2005, p. 38, citato in Ibidem.

16)

S. Freud, Totem e tabù – Psicologia delle masse e analisi dell’io, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

17)

Ibidem.

18)

Ibidem.

19)

F. Alfano Miglietti, Nessun tempo, nessun corpo...: arte, azioni, reazioni e conversazioni, Skira, Milano 2001.

20)

A. Vettese, La rivolta del corpo. Gli artisti che lo hanno usato, spinto al limite, liberato, Laterza, Roma 2024.

21)

K. Kris, E. Kurz, The Image of the Artist in Performance Art: The Case of Rudolf Schwarzkogler, in Margins, Minima, Media etc. The Political Meaning of Conceptual Art, a cura di L. Brogowski, «Sztuka i Dokumentacja», VIII, 35, pp. 9-19.

22)

F. Alfano Miglietti, op. cit.

23)

Ibidem.

24)

A. Gonzenbach, Bleeding borders: abjection in the works of Ana Mendieta and Gina Pane, «Letras Femeninas», XXXVII, 1, 2011, pp. 31-46.

25)

Si veda R. Schneider, The Explicit Body in Performance, Routledge, New York-London 1997 per l’idea della performance come ritualizzazione del sé, ma anche G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007 per un approfondimento sulle immagini come trascinatori di memoria, ritorni e stratificazioni storiche.

26)

F. Alfano Miglietti, op. cit.

27)

D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 2018.

28)

J. Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2025.

29)

W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.

30)

D. Sisto, Gli spettri digitali della persona: vivere e mai morire online, in Culture della persona: itinerari di ricerca tra semiotica, filosofia e scienze umane, in Culture della persona: itinerari di ricerca tra semiotica, filosofia e scienze umane, a cura di J. Ponzo e G. Vissio, Accademia University Press, Torino 2021.

31)

Marjorie Prime, regia di M. Alereyda, Passage Pictures, USA 2017, citato in Ibidem.

32)

Be Right Back, regia di Owen Harris, sceneggiatura di C. Brooker, in Black Mirror, serie TV, Stagione 2, Episodio 1, Zeppotron / Channel 4, 2013.

33)

D. Sisto, op. cit.

34)

Si veda K. Hayles, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press Journals, Chicago 1999, ma anche L. Floridi, The Onlife Manifesto, Springer, Berlino 2015.

35)

A questo proposito si veda R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte (Vol. 1), DeriveApprodi, Roma 2020, e R. Braidotti, Il postumano. Saperi e soggettività (Vol. 2), DeriveApprodi, Roma 2022.

36)

E. Modena, Immersioni. La realtà virtuale nelle mani degli artisti, Johan & Levi editore, Milano 2023.

37)

A. Kassam, Deus in machina: Swiss church installs AI-powered Jesus, «The Guardian», 21 novembre 2024. https://www.theguardian.com/technology/2024/nov/21/deus-in-machina-swiss-church-installs-ai-powered-jesus (consultato il 6 aprile 2025).

38)

J. P. L. Arceno, Theology of Virtual Realism: Metaverse, VR Church, and Real Experience, «Global Network for Digital Theology», 2022.

39)

Ibidem.

40)

Westworld, serie TV, ideata da J. Nolan e L. Joy, HBO, 2016–2022.

41)

A. Franzoni, Westworld: nel labirinto della coscienza, «I martedì», VII, anno 40, 2017.

42)

M. Sarner, The age of envy: how to be happy when everyone else's life looks perfect, «The Guardian», 9 ottobre 2018.
https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/oct/09/age-envy-be-happy-everyone-else-perfect-social-media (consultato il 15 aprile 2025).

43)

D. Chatzakou et al., Mean birds: Detecting aggression and bullying on twitter, Atti del convegno di ACM sulle web science, 2017.

44)

F. Carraturo et al., Envy, social comparison, and depression on social networking sites: a systematic review, «European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education», XIII, 2, 2023, pp. 364-376.

45)

A. Ulman, Excellences & Perfections, performance su Instagram, 2014. Cfr. S. Ruigrok, How this 2014 Instagram hoax predicted the way we now use social media, «Dazed Digital», 14 marzo 2018. https://www.dazeddigital.com/art-photography/article/39375/1/amalia-ulman-2014-instagram-hoax-predicted-the-wa y-we-use-social-media (consultato il 15 aprile 2025).

46)

E. e F. Mattes, The Others, installazione, 2011. Cfr. The Others (2011), sito ufficiale di Eva & Franco Mattes, disponibile su: https://0100101110101101.org/the-others/ (consultato il 15 aprile 2025).

47)

P. Aksenov, Stanislav Petrov: The man who may have saved the world, in «BBC News», 26 settembre 2013. https://www.bbc.com/news/world-europe-24280831 (consultato il 15 aprile 2025).

48)

P. N. Edwards, The Closed World: Computers and the Politics of Discourse in Cold War America (Inside Technology), MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1996.

49)

B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2018.

50)

B. Latour, La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Einaudi, Torino 1998.

51)

D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 2018.