Nel contesto culturale contemporaneo il concetto di autorialità è oggetto di una profonda ridefinizione. Non è più il medium a determinare il significato dell’opera, bensì l’intenzione critica e poetica che l’artista proietta su un sistema interconnesso di tecnologie, linguaggi e dispositivi. Lungi dall’essere superato, il medium si moltiplica, si ibrida e si trasforma in funzione della complessità delle pratiche artistiche attuali, segnando un passaggio dalla centralità dell’oggetto alla centralità del processo, dell’interfaccia e della relazione.
In questo scenario, si impone la necessità di riconsiderare il ruolo dell’autore. Non più creatore isolato e autosufficiente, ma figura situata, che agisce come orchestratore di dispositivi e interprete critico della realtà tecnologica. L’autore contemporaneo non abdica alla propria umanità, ma la ridefinisce, in grado di confrontarsi con l’automatismo e la standardizzazione algoritmica.
Come afferma Lev Manovich nel suo saggio Il linguaggio dei nuovi media (2001), “La computerizzazione della cultura svolge due funzioni importanti: contribuisce alla nascita di nuove forme culturali, come i videogiochi e i mondi virtuali, e ridefinisce quelle preesistenti, come la fotografia e il cinema. Bisogna quindi analizzare anche gli effetti della rivoluzione informatica sulla cultura visuale in generale [1]”. Tale affermazione pone le basi per un’indagine critica che non si limiti alla fenomenologia delle nuove tecnologie, ma che interroghi le trasformazioni epistemologiche, ontologiche e politiche della pratica artistica nell’era dell’intelligenza artificiale.
Questo saggio propone una riflessione teorica sull’autore post-mediale, intrecciando i contributi di Roland Barthes, Félix Guattari, Martin Heidegger, Rosalind Krauss, Lev Manovich, con esempi tratti da pratiche artistiche contemporanee. In particolare, si intende esaminare come il dubbio, l’errore e la co-creazione uomo-macchina contribuiscano a definire nuove forme di autorialità che non si esauriscono nella firma, ma si esprimono nella capacità di generare senso, interrogare l’automazione e restituire all’arte una funzione cognitiva e critica. In questa prospettiva, l’opera d’arte torna a configurarsi come strumento di pensiero e come soglia instabile di un nuovo umanesimo tecnologico.
1. L’ipotesi postmediatica
Nel 1985, durante una conferenza tenutasi a Tokyo, il filosofo francese Félix Guattari introduce la sua tesi sull’imminente rivoluzione postmediatica, prefigurando uno scenario in cui le tecnologie della comunicazione e dell’informazione avrebbero potuto diventare strumenti di emancipazione soggettiva e creatività collettiva. In tale prospettiva, Guattari affermava:
“L’emergere delle nuove pratiche di soggettivazione di un’era postmediatica sarà notevolmente facilitato da una riappropriazione concertata delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, a condizione che esse consentano sempre più: […] forme innovative di dialogo e interattività collettiva; […] la connessione di banche dati attraverso il networking; […] la moltiplicazione all’infinito di ‘operatori esistenziali’, che consentano l’accesso a universi creativi mutanti” [2].
La riflessione guattariana prende le mosse dall’esperienza delle radio libere — come il caso emblematico di Radio Alice a Bologna — e dalle prime reti telematiche alternative — come il caso del sistema francese Minitel, di cui era un grande sostenitore — prefigurando un utilizzo delle tecnologie digitali capace di sfuggire ai meccanismi di normalizzazione dei media di massa. Sebbene Guattari non abbia potuto assistere, a causa della sua morte prematura, allo sviluppo compiuto del Web e dell’ecosistema digitale contemporaneo, la sua visione anticipa molte delle trasformazioni attuali nella relazione tra soggettività, tecnologia e produzione culturale.
L’era postmediatica, così come delineata dal filosofo francese, si configura come un tempo in cui si dissolve la centralità dei media tradizionali e si affermano forme di espressione distribuite, interattive e reticolari.
Se Guattari evidenzia il potenziale emancipativo delle tecnologie come veicolo di soggettivazione, Krauss ne mostra l’impatto sulla forma stessa dell’opera d’arte e sui paradigmi estetici della modernità. In un saggio del 1999, Krauss individua nella nozione di post-medium condition il superamento dell’estetica modernista, fondata sulla valorizzazione della specificità materiale del medium. Secondo Krauss, l’adozione di linguaggi tecnologici e mediali — come il video, l’installazione, la fotografia digitale — costringe l’arte contemporanea a oltrepassare il principio della “specificità mediale” e a confrontarsi con una dimensione ibrida, transmediale e concettuale della pratica artistica.
Il concetto di post-medium serve dunque, nella proposta di Krauss, a riconoscere che i mezzi tradizionali (pittura, scultura, ecc.) si sono esauriti [3] come canali esclusivi di legittimazione artistica, senza tuttavia abbandonare del tutto l’idea della necessità di regole, strutture o vincoli. Per rispondere a questa trasformazione, Krauss introduce la nozione di supporto tecnico, uno strumento teorico che consente di analizzare pratiche artistiche non riconducibili ai medium classici, ma capaci di instaurare coerenze operative proprie. Si tratta, in questo senso, di un tentativo di costruire una nuova logica del dispositivo, che riconosca la complessità dei linguaggi contemporanei senza cadere nell’indistinzione generalizzata.
L’esaurimento dei mezzi tradizionali è rilevato anche da Lev Manovich, teorico dei media di origine russa, che individua la crisi della specificità mediale come il risultato di una trasformazione in tre fasi fondamentali: l’emergere dell’arte concettuale negli anni Sessanta, l’adozione crescente di tecnologie analogiche — come la fotografia e il cinema — da parte delle pratiche artistiche, e infine l’avvento della digitalizzazione.
La conseguenza di questa metamorfosi è lo spezzarsi del legame tradizionale tra identità dell’opera e medium impiegato. La cultura visiva contemporanea, così intesa, si costruisce non più sull’identità singolare del mezzo ma su una infrastruttura computazionale comune, capace di integrare testi, immagini, video, suoni, interazioni e algoritmi. In tal senso, il passaggio alla postmedialità implica anche un ripensamento profondo dei criteri di valutazione e delle genealogie dell’opera d’arte: non più legata a un medium, ma a una rete di relazioni, regole operative e processi codificabili.
Manovich individua cinque principi che definiscono l’ontologia dei nuovi media digitali: rappresentazione numerica, modularità, automazione, variabilità e transcodifica culturale. Questi principi non costituiscono tanto una tassonomia rigida quanto piuttosto una serie di tendenze generalizzate, che descrivono il modo in cui le tecnologie digitali operano e trasformano i contenuti culturali. La rappresentazione numerica implica che ogni oggetto di un nuovo medium è codificabile in forma digitale, cioè come una sequenza di numeri, rendendolo manipolabile attraverso operazioni algoritmiche. La modularità, a sua volta, permette che tali oggetti siano costituiti da elementi indipendenti e riutilizzabili, come le clip video in un montaggio o i livelli in un file Photoshop. È a partire da questi due principi fondamentali che Manovich introduce il concetto di automazione: la possibilità di delegare intere porzioni del processo creativo a sistemi computazionali, riducendo o trasformando radicalmente l’intervento dell’intenzionalità umana. In questo senso, l’autore suggerisce che la creazione algoritmica, l’interazione con l’utente e la generazione automatica di contenuti siano caratteristiche strutturali del linguaggio dei nuovi media. Ne deriva una tensione cruciale per la riflessione sull’autorialità contemporanea: “[…] l’intenzionalità umana può essere rimossa, almeno in parte, dal processo[4]”, ridefinendo i confini stessi di ciò che si intende per “opera” e “autore”.
2. Trasformazioni dell’autorialità: dalla morte dell’autore alla funzione collettiva
In questo senso è fondamentale tornare a uno snodo teorico decisivo: il pensiero strutturalista e post-strutturalista, in particolare il saggio La morte dell’autore di Roland Barthes (1968), in cui l’autore si oppone all’idea che il testo sia espressione diretta e intenzionale di un soggetto-autore.
Barthes, come altri pensatori strutturalisti (Lévi-Strauss, Foucault), insiste sulla necessità di decostruire il mito moderno del soggetto-autore come padrone del significato. Per lui, il testo vive una propria esistenza, produce senso indipendentemente dall’intenzione dell’autore e si apre a una pluralità di letture. Questa prospettiva mette in crisi ogni lettura normativa o univoca e afferma che l’opera non appartiene più a chi l’ha scritta, ma a chi la legge. La celebre tesi che conclude il saggio: “la morte dell’autore è la condizione per la nascita del lettore[5]”, diventa così un principio fondante della critica post-strutturalista.
In linea con la visione post-strutturalista di Barthes, a partire dagli anni ‘90 con la diffusione dell’ipertesto e delle tecnologie digitali, molti hanno visto nell’autorialità elettronica una forza liberatrice. In questo contesto, la tecnologia stessa è stata vista come agente culturale, sostituendo l’autore umano come fonte di autorità.
Se Barthes liberava il testo dal dominio dell’autore, nell’era digitale questa libertà rischia di diventare una nuova forma di spersonalizzazione, come denuncia Jaron Lanier, informatico e compositore statunitense, in You are not a gadget (2010), temendo la perdita dell’agenzia e della responsabilità individuale nell’era dei cloud e delle mashup. Secondo lui, senza autori non ci sono nemmeno rinascimenti culturali. Indipendentemente dalle opinioni, è evidente che sia in atto una rivoluzione culturale e tecnologica, che trasforma i media analogici in digitali, riducendo il ruolo dell’individuo e valorizzando l’intelligenza collettiva.
Al fine di rispondere alle sfide culturali dell’epoca postmediale Berensmeyer, Buelens e Demoor in Authorship as Cultural Performance: New Perspectives in Authorship Studies (2012) propongono un modello performativo che distingue tra concetti “forti” e “deboli” di autore. Il concetto forte identifica l’autore come genio creativo autonomo, mentre quello debole, storicamente più diffuso, lo vede come prodotto di reti culturali e media. Gli autori propongono un modello flessibile e coerente, capace di adattarsi ai mutamenti storici, per analizzare come l’autorialità sia stata “performata” nel tempo, anche attraverso la dimensione materiale della cultura e dei media.
Viene messo in discussione il mito romantico del genio solitario, mostrando come anche in epoca romantica esistessero concezioni più collettive o eteronomiche (es. Goethe e il “soggetto collettivo” di *Faust*). Emerge l’importanza delle reti di mediazione nella costruzione dell’immagine pubblica dell’autore. Il modello performativo dell’autorialità si basa sull’interazione di agenti umani e non, vincolata da norme sociali e configurazioni mediali. La performance non è riducibile all’intenzionalità, ma è un processo aperto che può trasformare la realtà.
Si potrebbe ipotizzare una categorizzazione dell’autore nell’arte contemporanea: 1. Autorialità come performance culturale; 2. Autore collettivo o distribuito; 3. Autore come “funzione”.
Secondo la prima declinazione, molti artisti, nel contemporaneo, non sono solo creatori di oggetti, bensì attivatori di processi e situazioni. In questo senso l’autore si configura come un agente performativo. Ne è un esempio la ricerca artistica di Tania Bruguera, artista cubana, che con il concetto di arte útil, a partire dagli anni 2000, propone un uso dell’arte non solo simbolico o rappresentativo, ma concretamente operativo sulla realtà. Le opere non possono esistere senza la partecipazione attiva del pubblico, che ne diventa parte costituente. La visione di Tania Bruguera si discosta dall’arte relazionale di Nicolas Bourriaud, criticata anche da Claire Bishop per la sua superficialità e mancanza di continuità. Per Bruguera, l’opera deve attivare lo spettatore non come intrattenimento, ma come stimolo politico e trasformativo. Lo spettatore deve riconoscersi come cittadino e soggetto creativo, capace di rompere con il sistema vigente[6].

La seconda categoria, ovvero quella dell’autore collettivo o distribuito, vede il venir meno dell’autore-genio, colui che è dotato di un’autonomia forte, a favore di una partecipazione collaborativa nella produzione artistica. È il caso di SUPERFLEX, fondato nel 1993 da Jakob Fenger, Bjørnstjerne Christiansen e Rasmus Rosengren Nielsen, e concepito come un collettivo in espansione di umani e non umani. Nel progetto Super Metro (2024), la questione dell’autorialità post-mediale si intreccia con l’idea di un collettivo espanso. L’opera, che capovolge le coordinate fisiche e temporali dell’ambiente metropolitano, non è riconducibile a un gesto autoriale individuale e concluso, bensì si attualizza attraverso l’interazione con i passeggeri. La metropolitana, solitamente vissuta come spazio neutro e funzionale, si trasforma in un’interfaccia dinamica in cui ogni corpo in transito partecipa all’attivazione dell’opera, generando una forma di co-creazione diffusa. In questo senso, il collettivo espanso non è un’entità definita, ma un campo di forze mobili, che si costituisce nella relazione temporanea tra spazio, tecnologia e percezione.
La natura instabile e relazionale dell’opera mette in crisi l’idea di controllo, centralità e permanenza dell’autore, restituendo invece all’esperienza artistica una dimensione rizomatica e partecipativa. Il tempo che si dilata e si contrae, gli orologi che perdono la loro funzione ordinatrice, i riferimenti spaziali che si ribaltano: tutto concorre a una disarticolazione dei codici percettivi abituali, aprendo a un’esperienza condivisa che è al tempo stesso estetica, cognitiva e collettiva.
Super Metro incarna così un’estetica post-mediale, in cui il medium non è solo supporto, ma ambiente sensibile e instabile; e l’autore, lungi dall’essere regista onnipotente, diventa mediatore di situazioni esperienziali che interrogano la realtà tecnica e sociale. In questa logica, la funzione autoriale si espande nel collettivo: si diffonde nei gesti anonimi di chi attraversa l’opera, nei tempi asincroni della fruizione, nei cortocircuiti tra spazio urbano e immaginazione.

Questa categoria si riferisce anche a tutti quei progetti post-human o AI-driven, in cui l’autore è una rete di agenti umani e non.
Se nella prospettiva dell’autore collettivo l’attenzione si sposta sul processo cooperativo e interattivo della produzione, l’ultima categoria, quella dell’autore come “funzione” si concentra sul ruolo discorsivo e istituzionale che l’autore assume in un determinato contesto. Questa declinazione riprende l’idea di “funzione-autore” di Foucault, secondo cui “La funzione-autore è quindi caratteristica di un modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno di una società[7]“. Dunque, l’autore si determina in particolari contesti sociali e storici. Non si tratta dunque di una mera attribuzione di paternità, ma di un modo di organizzare il discorso, attribuendo ad un autore un ruolo ed un potere specifico. Si pensi qui all’arte concettuale o al ready-made di Duchamp, dove il gesto autoriale è spostato sul piano dell’intenzione e del contesto.
3. L’autore nella condizione postmediale
Nella condizione postmediale, il concetto di medium perde la sua specificità tecnica e diventa un campo dinamico in continua trasformazione. Non è più il supporto a definire l’opera, ma piuttosto l’insieme di relazioni che essa attiva tra tecnologie, corpi, dati e istituzioni. Già negli anni Trenta Walter Benjamin e, successivamente, negli anni Settanta John Berger avevano esplorato l’essenza dell’arte come qualcosa capace di andare oltre gli aspetti rituali e artigianali della produzione manuale. Di conseguenza, l’uso di uno strumento non determina in modo definitivo il valore estetico di un’opera. In questo scenario, l’autore non è né un’entità sovrana né completamente dissolta, ma assume forme ibride, fluide e rizomatiche.
Come ha osservato Peter Weibel, nella postmedia condition[8] non c’è più un medium dominante, ma una costellazione di media in dialogo, che richiede una ridefinizione del ruolo autoriale.
<<This post-media condition is defined by two phases: 1. the equivalence of the media and 2. the mixing of the media. […] The ultimate effect of all this is to emancipate the observer, visitor and user. In the post-media condition we experience the equality of the lay public, of the amateur, the philistine, the slave and the subject.>>[9]
In questo contesto, l’autore diventa una figura interfacciata: un nodo all’interno di una rete di agenti materiali e immateriali, umani e non umani. Le pratiche artistiche postmediali non si limitano a rappresentare il mondo, ma lo modificano attraverso infrastrutture, sistemi e protocolli. L’autore si configura così come architetto di ambienti esperienziali, designer di condizioni di esistenza, programmatore di immaginari collettivi.
La postmedialità mette in discussione nozioni tradizionali come originalità, permanenza e firma, privilegiando invece pratiche di copia, risemantizzazione e riprogrammazione. L’autorialità si distribuisce nel tempo, nello spazio e tra più soggetti. Nell’ipotesi postmediatica delineata da Félix Guattari, l’autore non è più inteso come individuo isolato, ma come esito emergente di pratiche collettive, poetiche e politiche, capaci di moltiplicare le possibilità dell’esistenza.
Lungi dall’essere il centro assoluto dell’opera, l’autore postmediale si configura come nodo relazionale, attivatore di processi più che produttore di forme compiute. La soggettività autoriale non scompare, ma si decentra e si moltiplica, aprendosi a nuove modalità di collaborazione, ibridazione e co-creazione — come suggerisce anche Lev Manovich — con macchine, archivi, reti e altri soggetti, umani e non umani. In continuità con la visione di Guattari, il soggetto-autore non è più una figura autonoma, ma il risultato di una pratica di soggettivazione in dialogo costante con l’ambiente tecnico e sociale. L’autorialità si distribuisce così in un sistema reticolare di operatori esistenziali che generano universi di senso più che oggetti finiti.
Rosalind Krauss, superando la specificità mediale del modernismo, afferma che la funzione dell’autore si sposta dal controllo materiale del medium alla progettazione di un dispositivo concettuale. In questa prospettiva, l’autore contemporaneo diventa una sorta di curatore delle possibilità, capace di rendere realistica l’emergenza dell’opera. Decisiva, in tal senso, è l’introduzione del concetto di supporto tecnico: ciò che conta non è tanto il mezzo in sé, quanto la logica interna che l’artista costruisce attorno ad esso.
Questa riflessione trova una forte risonanza anche nel pensiero di Nicolas Bourriaud che, da Estetica relazionale (1998) a Postproduction (2002), individua una trasformazione sostanziale nelle modalità operative dell’artista. Se per Manovich l’autore tende a dissolversi nell’interazione automatizzata tra opera e utente, per Bourriaud l’artista agisce come editor, montatore o programmatore di materiali culturali preesistenti. In entrambi i casi, l’autorialità si ridefinisce come funzione aperta, distribuita e relazionale.
Per Bourriaud, l’artista contemporaneo opera in un contesto in cui l’originalità cede il passo alla connessione, e la creazione si fonda sull’appropriazione, il riciclo, il remix e il montaggio. Il concetto di postproduzione, mutuato dal linguaggio del cinema e del video, descrive appunto questa condizione: l’opera non nasce più come oggetto isolato, ma come intervento in una rete culturale già attiva. L’artista riorganizza materiali in funzione di nuovi scenari di senso e fruizione. Questa prospettiva si intreccia coerentemente con quella descritta da Manovich: la modularità e variabilità dei media digitali rendono ogni contenuto rielaborabile, replicabile, personalizzabile. L’opera diventa così uno spazio interattivo, un dispositivo aperto in cui l’artista propone modalità di attivazione più che un messaggio chiuso.
In questa ottica, si apre anche la questione della responsabilità: se l’autore non è più identificabile con un singolo individuo, dove si colloca oggi la responsabilità etica, politica e culturale della produzione artistica? La condizione postmediale sollecita nuove forme di accountability distribuita e di agency condivisa.
4. Nuove forme di autorialità in rapporto al dubbio
Abbiamo dunque visto che il passaggio alla postmedialità non implica la scomparsa dell’autore, bensì il suo riposizionamento all’interno di un ecosistema complesso, in cui la creazione si configura sempre più come atto di negoziazione tra umano e tecnologico, tra intenzione e automatismo, tra memoria e previsione.
In questo contesto, l’intelligenza artificiale agisce come catalizzatore di una nuova idea di autorialità distribuita, in cui l’errore e il dubbio non sono deviazioni da correggere, ma zone fertili di sperimentazione.
Nel progetto Errori (2023), esposta all’interno della mostra The Rights from Future Generation. A Perspective on (A)rt and (I)nnovation alla Reggia di Monza nel 2023, D’Isa sovverte la logica dell’efficienza e della perfezione tecnica dell’intelligenza artificiale, cercando deliberatamente i bug del sistema. Il prompt non è più uno strumento di controllo, ma diventa atto poetico: genera un cortocircuito tra ciò che è previsto e ciò che è possibile. Ne emerge un’estetica dell’imprevisto, dove l’errore non è un fallimento, ma un varco verso il nuovo.

“[…]Un errore smette di essere tale e si trasforma in qualcosa di nuovo”afferma D’Isa nell’intervista Quando gli errori diventano opere d’arte di Cristina Maiorano e pubblicata su Artuu nel 2024.
Secondo D’Isa, la creatività non nasce dal nulla, ma da una serie di scelte. Qui, l’autorialità si manifesta non tanto nell’invenzione ex novo, quanto nella capacità di attribuire senso all’imprevisto. È un gesto ermeneutico: riconoscere in una distorsione automatica una visione, un’intuizione.
D’Isa chiarisce un punto cruciale: l’intelligenza artificiale non è un autore, ma uno strumento guidato. Tuttavia, nel processo di produzione emerge una co-agency: l’opera è il frutto di una pluralità di agenti, umani e non umani. Si tratta di una visione che si oppone all’individualismo romantico e si avvicina alle teorie contemporanee della soggettività distribuita.
L’autorialità si sposta così dall’origine alla selezione: ciò che conta non è chi ha generato l’immagine, ma chi l’ha scelta, reinterpretata, contestualizzata. L’artista diventa “curatore del possibile”.
Il riferimento di D’Isa alle visioni ipnagogiche è particolarmente evocativo: lo spazio dell’errore si configura come soglia tra conscio e inconscio, tra ordine e caos, dove si apre una modalità alternativa di conoscenza. L’intelligenza artificiale, forzata oltre i suoi limiti, si fa specchio deformante della mente umana, capace di restituire forme sorprendenti proprio perché inattese.
In questo senso, l’errore è una forma di dubbio incarnato: non sapere cosa accadrà, ma scommettere sulla potenza del disallineamento. È un’epistemologia del rischio, dove l’autore non esercita il controllo, ma si assume la cura del perturbante.
Il progetto Errori di D’Isa ci invita a ripensare radicalmente il concetto di autorialità: non più centrata sull’originalità individuale, ma fondata su un rapporto dinamico con l’errore, il dubbio, e l’alterità del sistema. In questa prospettiva, l’artista non è chi domina la macchina, ma chi ne accoglie le deviazioni, trasformandole in linguaggio.
È in questa scelta consapevole del difetto, in questa apertura al non previsto, che si gioca una delle frontiere più stimolanti dell’arte contemporanea.
Vittoria Mascellaro