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Giovanni Battista Montini e la teoria critica della società

Per una teoria critica della modernità: la via marxista e la via cattolica

Di Giacomo Scanzi (Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia) 18/01/2021

ABSTRACT

Il Novecento si presenta come secolo carico di contraddizioni. Secolo in cui si compie la piena maturazione filosofica e antropologica della cosiddetta modernità e insieme secolo in cui maturano in ambienti diversi spinte critiche che vanno al cuore delle sue false prospettive e soprattutto della sua natura ideologica. Nella seconda metà del secolo si registra una inedita convergenza diagnostica delle due grandi aree di pensiero che caratterizzano il XX secolo: quella marxista che fa capo alla Scuola di Francoforte e quella cattolica che, da Jacques Maritain giunge a Giovanni Battista Montini-Paolo VI. Si può dunque parlare di una vera e propria teoria critica cattolica, che nel pontefice bresciano raggiunge la massima complessità e la più profonda elaborazione non senza contatti stretti con il pensiero marcusiano.

Parole chiave: Modernità, Ideologia, Illuminismo, Post-capitalismo, Consumismo Euforia, Metafisica, Dominio, Parola, Vita

The XXth century is a period filled with contradictions. Over this century, the philosophical and anthropological maturation process of the so-called modernity reaches its completion. From different contexts, contrasting viewpoints arise and clash against the century’s false perspectives and its ideological core. During the second half of the century, we witness the unprecedented encounter of the two main belief systems of such time: Marxism, represented by the School of Frankfurt, and the Catholic ideology, which  has been advancing on from Jacques Maritain to Giovanni Battista Montini (Pope Paul VI). Ultimately, through Marcuse’s influence, we observe the birth and development of a subversive Catholic theory, which reaches its culmination with Pope Paul VI’s thought.

Key words:Modernity, Ideology, Illuminism, Post-capitalism, Consumerism, Euphoria, Metaphysics, Domain, Word, Life

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La questione della modernità, con particolare riferimento all’evoluzione tecnologica della società, con le sue diramazioni negli ambiti del potere, della democrazia e del controllo della pubblica opinione, attraversa il Novecento come una brezza inarrestabile. Il pensiero critico sulla contemporaneità, coltivato con inevitabili differenti sfumature all’interno delle diverse culture, ha accompagnato, fin dai primi decenni del secolo, la corsa senza freni del cosiddetto “progresso”, cercando di individuarne i limiti intrinseci, i pericoli sociali, le sovversioni antropologiche e inevitabilmente, le implicazioni politiche.

Sono soprattutto i filosofi, seguiti dagli storici, ad affrontare quella che appare ai loro occhi come una vera e propria “crisi di civiltà”, che assurge a visione quasi apocalittica nel momento in cui i fascismi occupano gli spazi geografici della vecchia Europa e gli spazi stessi dell’esistenza.

In un trentennio, fino alla stagione della contestazione giovanile del 1968, la produzione di testi critici sulla società contemporanea, diviene vastissima e diffusa[1]

Al centro di tale approccio analitico-critico vi è la sostanziale convinzione che la cosiddetta modernità abbia comportato una deviazione irrazionale del preteso impianto razionalistico uscito dall’illuminismo e dal positivismo, con un’appendice politica sul fallimento della pretesa ragionevolezza economico-sociale del marxismo e della sua realizzazione storica, in URSS[2]. Anzi, per dirla con Horkheimer e Adorno, tale irrazionalità è intrinseca, come principio di contraddizione dialettica, all’illuminismo stesso.

Le tappe che accompagnano il dispiegarsi di tale reazione critica alla contemporaneità, con la loro fenomenologia storica, in chiave quanto meno simbolica, sono rintracciabili negli eventi della Grande Guerra e della Rivoluzione d’ottobre, nell’esperienza politica e bellica dei fascismi europei, nei processi di democratizzazione e di ricostruzione economica, fino al pieno compimento della società tecnologica con annesso il mito americano e al primato culturale del pensiero scientifico; a quella che sommariamente possiamo chiamare post-modernità in cui si colloca il pensiero dell’ultimo grande esponente della teoria critica della società contemporanea: Zygmunt Bauman[4].

Tra l’inizio del secolo XX e la sua fine, fino ai giorni nostri, si registra una sostanziale modificazione degli effetti collaterali prodotti dalla progressiva invasività della tecnica e della macchina sulle società capitalistiche prima e post-capitalistiche negli anni a noi più vicini: si è passati da una società alienata, quindi potenzialmente rivoluzionaria, a una società euforica, dunque sostanzialmente controllata. A segnare tale passaggio vi è il trasferimento del possesso del mezzo tecnologico da pochi padroni e da luoghi specifici (la fabbrica) al singolo individuo e al non luogo della techné planetaria.

La debolezza, o forse l’impossibilità dello sbocco pratico, delle proposte operative, della risposta alla domanda cruciale, “Che fare?”, è caratteristica comune di questa schiera di teorici critici della società. Dal Surrealismo di Breton e soprattutto di Aragon, con le sue confuse derive politiche, all’Uomo a una dimensione di Marcuse, senza dimenticare L’uomo in rivolta di Camus[5], a modo suo ascrivibile a questo gruppo, è quasi impossibile trovare soluzioni plausibili. Certo, Marcuse, nonostante il suo pessimismo quasi assoluto circa un possibile esito pratico della disamina critica della modernità tecnologica, costituì per un certo periodo un punto di riferimento per i giovani europei in rivolta. «Che i giovani europei trovassero in L’uomo a una dimensione le parole per dare espressione ai propri sentimenti avverso le loro società era in certo modo un esito paradossale. Pur intriso com’è di hegelismo e marxismo, di filosofia della storia e di psicoanalisi, di massimi sistemi della società e della mente – ovvero di quanto v’è di più europeo nella cultura moderna – il libro di Marcuse è in effetti un testo profondamente americano, nel senso che ha le sue radici nel soggiorno del suo autore – giusto trent’anni al momento della pubblicazione del libro nel 1964 – nella società statunitense. In tale società l’omogeneità dei valori, l’uniformità dei modelli di vita, l’adesione profonda ai principi che fanno funzionare al tempo stesso la democrazia e la produzione, sono da sempre ben più pronunciati che non in Europa. Non è quindi ipotesi azzardata sostenere che Marcuse scambiò per un fatale e generalizzato mutamento storico quello che era anzitutto l’effetto prospettico conseguente all’immersione d’un europeo, socializzato in una cultura dalle molte dimensioni, in una struttura sociale e in una cultura intrinsecamente più unidimensionale. Ma tant’è. I sentimenti non badano alla filologia quando si incontrano con testi atti a esprimerli, e per i giovani del ‘68 L’uomo a una dimensione aveva l’aria di descrivere alla perfezione ciò che stava accadendo in tutte le società industriali avanzate, quindi anche in Europa»[6].

I fatti contribuiranno a restituire all’opera di Marcuse il proprio valore di visione prospettica che, se nel 1964 pareva come una distorsione, appare oggi di grandissima attualità e proprio nel vecchio continente. Svanite o fallite le velleità rivoluzionarie della contestazione giovanile, la società europea ha ripreso a passo lesto il suo cammino unidimensionale, proprio aderendo pienamente al modello americano, esattamente secondo i parametri ideologici e psicologici additati dal filosofo tedesco. In particolare appaiono particolarmente significativi i passaggi sui «falsi bisogni»[7], sulle «forme prevalenti di controllo sociale [che] hanno carattere tecnologico in senso nuovo»[8]

Quello che Marcuse mette in luce sul piano ideologico e delle psicologie manipolative di massa, fino ad arrivare a definire il carattere totalitario della modernità e di una «società avanzata che fa del progresso tecnico e scientifico uno strumento di dominio»[9], Horkheimer e Adorno lo rintracciano nella radice irrazionale del padre di tutte le ideologie, quell’illuminismo apparentemente liberatore di ogni razionalità politica e sociale, ma che in realtà porta in sé il seme della sua contraddizione irrazionale e mitologica. Basta l’incipit di Dialettica dell’Illuminismo per comprendere la portata della teoria critica dei francofortesi: «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura»[10]. Anche nella Dialettica l’idea forte di un nuovo totalitarismo mascherato di razionalità, ricorre come linea guida interpretativa di tutta l’opera, in cui scienza e tecnologia divengono gli strumenti di un ragionevole dominio, prontamente ri-mitizzati e utilizzati per ogni operazione di manipolazione della realtà, della natura e del pensiero. Così, ogni esperienza priva di significato – perché l’obiettivo della falsa razionalità dell’illuminismo è proprio l’eliminazione del significato – diviene parodia d’esperienza e di felicità. Se in Marcuse si poteva parlare per la società unidimensionale di «euforia nel mezzo dell’infelicità»[11], per Horkheimer e Adorno «il riso diventa lo strumento di una truffa operata ai danni della felicità»[12] per cui «il collettivo di quelli che ridono è la parodia della vera umanità»[13], capace di produrre una «falsa armonia»[14] che in realtà altro non è che «caricatura della solidarietà»[15]. Si tratta insomma di una riduzione a unità dello stesso spazio eterogeneo della felicità e dei suoi linguaggi. La felicità omogenea resta l’unico spazio concesso, in cui i consumi e il divertimento sono i surrogati potenziali del senso.

Si delinea nel pensiero della Scuola di Francoforte l’idea di un tradimento della modernità che nulla ha a che vedere con qualsiasi nostalgia del passato. Non siamo di fronte, insomma, a forme più o meno velate di reazione al progresso, al desiderio di passi indietro della società. La teoria critica della modernità e del progresso non è dunque un atto di revisionismo storico-filosofico, semmai è uno smascheramento. Il riconoscimento che la società capitalista più avanzata e il socialismo incarnato abbiano la medesima radice spezzata e falsificata, conduce inevitabilmente a rimodulare la propria identità politica, il complesso ordito delle appartenenze. 


Capitalismo e marxismo, in quanto generati dalla medesima mistificazione della ragione, hanno un solo comune obiettivo: la riduzione o il contenimento svuotato dei significati, di ogni esperienza naturale all’unità. Il numero, e uno solo, è così il canone dell’illuminismo. «L’illuminismo – scrivono Horkheimer e Adorno – riconosce a priori, come essere e accadere, solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il sistema, da cui deduce tutto e ogni cosa»[16]. Facile rintracciare nell’inveramento storico del marxismo, il culmine di tale processo, che a suo modo diviene mito; anche la società borghese, quella delle cosiddette libertà, «è dominata dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; il positivismo moderno lo confina nella
letteratura»[17]. Possiamo rintracciare dunque in questa diagnosi – come sostiene Carlo Galli[18] – una critica significativa ai processi di globalizzazione e di omologazione avviati qualche decennio dopo la pubblicazione della Dialettica

Il campo marxista non è il solo a incamminarsi sulla strada della teoria critica della società moderna. Si può rintracciare un’analoga riflessione, seppure con differenze di approccio e di approdo assai significative, anche nel campo cattolico. È soprattutto la cultura francese, in questo caso, ad avviare la disamina critica, a partire da un’opera che tanta influenza avrà in Italia grazie alla traduzione di un giovane sacerdote bresciano, Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. Si tratta de I tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau di Jacques Maritain[19].

 

Il papa Paolo VI con il filosofo dell’umanesimo integrale Jacques Maritain (1965)

 

«Il libro, – scrive Montini nella Prefazione – nelle persone dei suoi più qualificati fautori, rintraccia le origini del soggettivismo contemporaneo, in cui si vuole dai più ravvisare quel peculiare carattere che costituisce la modernità del pensiero, e che un’esperienza altrettanto dolorosamente moderna denuncia come causa delle tre grandi rivoluzioni, eufemisticamente chiamate riforme, religiosa con Lutero, filosofica con Cartesio, sociale con Rousseau, di cui soffre l’anima e il secolo nostro, e di cui, infatuata com’è di quei dogmi riformatori, l’età nostra non riesce a scoprire né rimedio, né scampo»[20].

Le conseguenze per Montini sono evidenti: «Da Lutero ai nostri giorni, la religione piegò in religiosità, rimanendo senza altro contenuto che l’emozione dell’uomo rifatto cieco sui misteri di Dio; dopo Cartesio la filosofia si umiliò nel dubbio, fino a disperare del vero, e restar paga delle proprie esperienze immanentistiche; e la società, che in Rousseau vide il sistematore nuovo, tumultuò e perdette il primitivo amore che l‘unificava, e decadde così, lottando e soccombendo travagliata da furori sovversivi e anarchici»[21].

Certo, la diagnosi maritainiana-montiniana ha per oggetto d’amore quel senso religioso che nella società dei consumi andava affievolendosi sempre più e lasciava l’uomo sempre più solo di fronte all’incedere affascinante e totalizzante della tecnologia e della scienza. Un tema che Maritain riprenderà più compiutamente in Umanesimo integrale[22]. Si andava così profilando in campo cattolico quella corrente di pensiero impegnata nel campo della conoscenza della modernità per poterne poi esplicitare la critica radicale. È una posizione che Maritain stesso definisce, con piglio radicale, «antimoderna»[23]. La cultura cattolica europea è pervasa, in questo primo trentennio del Novecento, da numerose e assai differenti pulsioni di rifiuto della modernità che vanno da un anacronistico desiderio di restaurazione della civitas cristiana, dal vagheggiamento di un ritorno al Medioevo (il medievalismo di Gemelli con il suo impianto corporativo, ad esempio), fino a forme decisamente reazionarie e filofasciste come quelle incarnate dall’Action française di Charles Maurras. La critica maritainiana e montiniana non percorre questi sentieri.


La parte diagnostica della modernità, o meglio, dell’umanesimo modernizzato proposta da Umanesimo integrale si fonda, come farà più tardi e in una prospettiva totalmente laica, il Camus dell’Uomo in rivolta, proprio sul proposito dell’uomo di sfidare Dio sul piano dell’amore e della morte, della giustizia e dell’assurdo. Così, se «con il Rinascimento la creatura fa salire verso il cielo il grido della sua grandezza e della sua bellezza»[24] e «con la Riforma il grido del suo affanno e della sua miseria»[25], in ogni caso «sia gemendo, sia ribellandosi, domanda di essere riabilitato»[26]. Si è trattato insomma di una sfida dell’umano al divino. Una rivolta innanzitutto metafisica, per dirla ancora con Camus, che ha provocato – sottolinea Maritain – un «inferno interiore dell’uomo in preda a se stesso»[27] su cui tuttavia, occorre riconoscerlo, «sono sboccati incontestabili arricchimenti di civiltà»[28].

Alla radice dell’ateismo, categoria che oggi andrebbe ripensata perché troppo otto-novecentesca, vi è per Maritain (come per Camus) una sorta di «risentimento contro Dio e una rivincita contro Dio che l’uomo ricusa di mettere alla testa della sua vita morale perché non gli perdona il mondo e il male – voglio dire l’esistenza del male nel mondo»[29].

Un ateismo sostanziale che, nella sua declinazione borghese occidentale, ha radici in una concezione dell’uomo nel consumo che nemmeno ha più il coraggio di una vera, eroica e radicale rivolta metafisica. L’uomo borghese occidentale è insomma «una produzione farisaica e decadente»[30] che «preferisce all’amore le funzioni giuridiche (non è erotico come afferma Sombart); e all’essere preferisce le funzioni psicologiche (perciò si può dire che non è neppure ontologico)»[31]. Quindi, «l’umanesimo borghese ricusa il principio ascetico e pretende sostituirlo col principio tecnico o tecnologico, perché aspira a una pace senza conflitti, progrediente in modo indefinito in una armonia e una soddisfazione perpetua, a immagine dell’uomo inesistenziale del razionalismo»[32]. Ed è proprio tale inesistenzialità euforica, razionalmente fondata, dunque politicamente orientata, il punto di contatto più forte tra una teoria critica della modernità di stampo cattolico e una di stampo marxista.

La questione della modernità si pone all’attenzione del giovane Montini fin dai primi anni del Novecento, quando, appena divenuto sacerdote, scrive alla nonna Francesca: «Tu sei fra noi la voce dei tempi ricchi di fede e di patriarcali virtù, e se a noi giovani, destinati a vivere in una generazione di torbide trasformazioni, vi è un conforto e una forza, è il pensare che non vana è la speranza di far rivivere, in istile moderno, la sapienza che alimentò l’età di cui tu ci porti presente il ricordo»[33].

In “istile moderno”: si tratta per il giovane sacerdote, che ha solo 23 anni, innanzitutto di linguaggi e di metodi, che permettano di trasmettere intatto il grande patrimonio di fede e di cultura che si è tramandato di generazione in generazione.

Le “torbide trasformazioni” riguardano innanzitutto i costumi, l’organizzazione della società appena uscita dalla prima guerra mondiale, l’inurbamento e la relativa secolarizzazione di un popolo frastornato e attratto dalle novità della vita della fabbrica e dai nuovi consumi. Siamo ancora dentro il perimetro di una società che cambia, ma apparentemente solo nelle sue manifestazioni esteriori, nelle abitudini, nella pratica religiosa; all’orizzonte si manifesta una cultura che si mostra sempre più ostile alla vita e alla stessa esistenza della Chiesa. Semmai la grande novità consiste in un’ostilità alla religione che va dilatandosi e va assumendo le forme di un’alterità di massa. Si delinea insomma un interlocutore forte ed esigente, che assume il connotato nuovo, quasi una categoria del pensiero e dello spirito: il Mondo.

Cristo, la Chiesa e il Mondo con la sua forza attrattiva, con le sue grandezze indiscutibili, con i suoi pericoli sempre più diffusi e radicali: in fondo non siamo lontani, per ora, dalle intuizioni e dalle lotte che avevano caratterizzato la generazione precedente, quella del papà di Giovanni Battista, Giorgio, e perfino quella stessa di Giuseppe Tovini, il padre del movimento cattolico bresciano, che, nella lotta contro lo Stato liberale, avevano dato per acquisito il mondo contemporaneo, allontanandosi significativamente da ogni tentazione passatista[34].

Il tempo non era più un’entità lontana, inavvicinabile, insomma, da subire con la rassegnazione suggerita dalla fede, ma una sfida da raccogliere, una realtà da governare nel passaggio da una società, non solo economicamente, ma anche antropologicamente rurale, a una in cui la fabbrica e la città, divenivano centrali e fagocitatrici di esistenze.

In questa prima fase, per il giovane Montini, che intanto è chiamato a guidare i giovani universitari cattolici riuniti nella Fuci, la questione delle relazioni Chiesa-Mondo è affidata innanzitutto alla rilettura in chiave moderna di San Paolo: «È noto – egli scrive – il largo e insinuante esordio di Paolo al suo discorso nell’Areopago di Atene: egli cerca di valorizzare perfino la religiosità pagana per farla sboccare nella religione cristiana (Atti, c. 17). E questo episodio, il più ardito del genere nel Nuovo Testamento, indica il sistema di penetrazione missionaria, che sarà poi seguito nell’apostolato cattolico: conservare il tessuto etico-psicologico, corrispondente alla morale naturale e alle profonde tendenze religiose dell’ambiente, per inserirvi (con quella “naturalezza” tanto cara al Blondel) il soprannaturale. La parziale coincidenza dell’ordine della fede con lo stato di fatto umano serve da leva per sollevare questo medesimo stato di fatto al livello della Redenzione»[35].

Ma in questo rapporto aperto con il Mondo si pone immediatamente, per il giovane sacerdote bresciano, il problema, che tornerà spesso nel Vescovo e poi nel Papa, della chiarezza delle posizioni, della fermezza nei princìpi, unica condizione per instaurare un rapporto corretto con la contemporaneità. Lo sguardo è innanzitutto rivolto ad intra, laddove i processi di secolarizzazione sembrano intaccare lo stesso tessuto religioso ed esistenziale del popolo di Dio: «Davanti all’anti-chiesa S. Paolo cerca tutte le vie per avvicinarla: non polemizza, afferma. Davanti alla pseudo-chiesa S. Paolo diventa teorico e irriducibile e respinge con energica polemica l’insincerità di accordi pratici compromettenti. La stessa carità illumina e brucia. E c’insegna a imitarlo: dove nel nostro mondo Cristo è assente, bisogna fare ogni sforzo cordiale e persuasivo, per renderlo presente. Dove nel nostro mondo Cristo è deformato e distratto ad altri fini che non quelli dell’eterna salvezza, bisogna essere fieri e duri nel difenderlo»[36].

Ancora una volta si tratta di una questione non solo di sostanza ma anche di linguaggio come forma narrativa solida dell’esperienza, un’esperienza religiosa essa stessa fortemente tentata dalla secolarizzazione, che Marcuse avrebbe descritto come «la parte cerimoniale del comportamentismo pratico, la sua negazione innocua» e dunque tranquillamente assimilata «dallo status quo come parte della sua dieta igienica»[37].

È in questo quadro che si appunta il preoccupato appello del giovane Montini a non equivocare: in questo caso tutto si risolve, scrive Montini in «coscienza universitaria», in «atti di coscienza» che sotto l’imperio della cosiddetta contemporaneità, si presentano come qualcosa che è «per nulla diverso dal sogno, dall’allucinazione, dall’illusione»[38]. Dire di Cristo per Montini esige un metodo e una chiarezza: «Meglio fallire che equivocare» scriverà nelle pagine di Studium negli anni Trenta, intravedendo il pericolo della trasformazione dell’esperienza della Chiesa appunto in pseudo-chiesa, piegata sul sentimentalismo, adattata alle esigenze del benessere esistenziale, tentata dagli infiniti slittamenti semantici che riducono la Parola alla sua caricatura, sempre fedele solo all’interesse del momento.

La pseudo-chiesa è, per il giovane sacerdote bresciano, che ha preoccupazioni teologiche, ecclesiologiche e pastorali prima che filosofiche, il filo conduttore di tutta la sua posizione critica nei confronti della modernità. Ma per Montini pseudo-chiesa significa anche – e forse soprattutto – pseudo-umanità.

La riflessione critica avviata negli anni giovanili si approfondisce, in termini decisamente maturi, durante l’esperienza dell’episcopato milanese.

Nominato Arcivescovo della metropoli lombarda da Pio XII, Montini fa il suo ingresso nella città di Ambrogio e Carlo il giorno dell’Epifania del 1955. La seconda guerra mondiale ha introdotto nelle società occidentali iatture profonde e soprattutto un vis a vis con il male fattosi storia in una sorta di storicizzazione del demonio e subito dopo, superato il pericolo mortale, un’euforia ricostruttiva dell’esistenza e della società che pone nuove domande all’uomo di fede e al Vescovo.

La modernità, che ormai ha i tratti concreti degli stili di vita, del fascino del denaro, della totale fiducia nella scienza e nella tecnologia, che – per dirla con Marcuse – stanno diventando sempre più «uno strumento di dominio»[39] sulla società e sulla vita stessa dei singoli, a Milano si materializza in un’esperienza viva, in cui l’uomo può finalmente mostrarsi nei suoi connotati unidimensionali: «Le persone – sono ancora parole di Marcuse – si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto»[40].

E tuttavia Milano è portatrice di una profonda e significativa esperienza religiosa, ricca di una tradizione secolare e di una liturgia sua propria, quindi di un discorso e di un patrimonio di segni che ancora sanno parlare ai cuori degli uomini. Ora più che mai – per Montini – sembra potersi avverare l’antico auspicio confidato alla nonna Francesca oltre trent’anni prima: conservare e tramandare in “istile moderno” l’antico patrimonio di fede, in un mondo tribolato. E nello stesso tempo potersi riaffermare la verità della Chiesa contro ogni forma caricaturale dell’esperienza religiosa.

Un Vescovo nel cuore della modernità: la questione è innanzitutto pertinente ai linguaggi, perché l’uomo moderno vede e giudica: «La figura del Vescovo […] non è semplice. Tanta esteriorità lo circonda […]; può darsi ch’essa oggi più confonda che non chiarisca le idee su ciò che il Vescovo veramente è, e più che offrire un’espressione genuina della sua missione, diventi, all’occhio del popolo, oggi ormai inesperto del linguaggio simbolico della Chiesa, una figurazione strana e anacronistica, un costume convenzionale puramente decorativo, o un’incomprensibile rappresentazione d’ignote realtà»[41].

Ma il nuovo Arcivescovo non esita, sa di essere uno «che entra in gioco adesso»[42]. Si tratta insomma di guardare in faccia l’uomo, oltre le riflessioni teoriche, l’approfondimento intellettuale, l’ancoraggio ai testi antichi e perfino la tradizione. Dell’uomo moderno occorre innanzitutto fare l’esperienza, sentirne il battito del cuore, l’odore, camminare con il suo passo, ascoltarne la voce, comprenderne il linguaggio, sondarne l’anima.

Qui si misura la distanza con i filosofi della teoria critica della società post-industriale, che giungono a una sorta di pessimismo storico: non basta il pensiero per comprendere l’uomo unidimensionale, serve l’amicizia, la compagnia, la condivisione del suo stesso destino e, infine, l’indicazione appassionata di un destino migliore. Così, se «l’uomo moderno è un disorbitato, perché ha perso il suo vero orientamento, che consiste nel guardare verso il cielo»[43], occorre indicargli dove girare lo sguardo. Se «l’uomo moderno […] è simile a colui che è uscito di casa, e ha perduto la chiave per rientrarvi»[44], occorre restituirgli le chiavi per ritrovare il luogo naturale in cui stare.

Luogo: è parola solida, essenziale, decisiva per Montini. Luogo da contrapporre ai “non luoghi” che più tardi Zygmunt Bauman additerà come elemento cruciale della sua “modernità liquida”[45]. Luogo è la casa, luogo è la città, luogo è la Chiesa. Ogni storia, personale e sociale, avviene in uno spazio definito, che a sua volta definisce.

Ma vi è un’altra dimensione che l’Arcivescovo pone a fondamento della propria lettura critica della modernità: la questione del tempo. Il tempo definisce l’uomo nella natura e nella storia, ne segna e ne accompagna il mutamento, il compimento. Tempo del fare e tempo dell’essere, tempo dell’uomo e tempo di Dio. E tuttavia è proprio il tempo la variabile impazzita che la modernità ha imposto all’uomo nuovo, sovvertendo la sua stessa percezione di sé in rapporto con il mondo e con l’assoluto. È ancora Marcuse ad annotarlo: «La macchina sembra instillare negli addetti una specie di ritmo ipnotico»[46]. La vecchia questione dell’alienazione marxiana è superata dal ritmo: «le cose corrono piuttosto che opprimere, e recano con sé nella corrente lo strumento umano, non solo il suo corpo, ma anche la sua mente e perfino il suo spirito»[47].

Il mondo che appare agli occhi dell’Arcivescovo è «febbricitante e caleidoscopico, […] proteiforme e dalle mille facce» e «corre come un gigante lanciato. Ma facciamo attenzione: dove va? Ha occhi cotesto gigante?[…] L’uomo moderno ha la fame e il possesso dei “mezzi”, non ha l’ansia dei “fini”»[48]. L’ansia spasmodica della velocità, il mito del tempo libero, l’accrescersi vorticoso di bisogni indotti, quelli che Marcuse addita come “falsi bisogni”, generano un risultato straordinariamente doloroso: «un’euforia nel mezzo dell’infelicità»[49].

Certo, l’Arcivescovo guarda al vorticoso movimento della metropoli lombarda, con sguardo ammirato. Non vi sono tentazioni retrospettive, non sogna il ritorno al mondo arcadico della società pre-industriale. Il lavoro è cosa troppo importante per la promozione dell’uomo: «Uno degli sforzi più notevoli del nostro momento, del nostro periodo di civiltà, è quello della velocità, e cioè di guadagnar tempo, di usufruire più intensamente del tempo che passa perché si sa che soltanto in questa misura, entro questi margini della successione di un atto all’altro, noi possiamo godere la vita. […] A me fa tanta impressione e direi quasi edificazione, alla mattina quando si esce presto, vedere tutto questo formicolio di popolo che corre, che prende tram, che non ha più pace se non arriva in orario e così l’affanno dell’arrivare in tempo: Dio li benedica, perché questi stanno compiendo un loro dovere. […] Ma viene la giornata di Dio, viene il giorno festivo. […] Dobbiamo dirlo con amarezza: anche noi cristiani abbiamo spesso laicizzato il giorno festivo»[50].

Lavoro e riposo. Ferialità e festività. Ristabilire le giuste proporzioni – si potrebbe dire la misura – del tempo dell’esistenza, per Montini costituisce la precondizione per un chiaro e sereno incontro tra la Chiesa e l’uomo moderno, tra il Vescovo e il suo popolo. Si tratta di ristabilire i giusti rapporti tra passato, presente e futuro, cosicché la catena umana possa comprendersi nella sua totalità storica, sia in chiave d’avvenimento, sia in chiave di salvezza. L’ipercontemporaneità, che riduce tutto a un presente perenne perché sperimentabile e intellegibile, è una delle gravi tentazioni che attanagliano la modernità e pesano sulle spalle e sugli spiriti, soprattutto dei giovani. Il mito dell’oggi schiaccia le esistenze sul terreno arido dell’esperienza fenomenica, togliendo dall’orizzonte umano da una parte la memoria e dall’altra la speranza.

Alle spalle, l’Arcivescovo ha due grandi esempi di vescovi ambrosiani: Ambrogio e Carlo. Montini è affascinato dalla figura di Ambrogio. Al patrono della città dedica nove discorsi per le altrettante feste, il 7 dicembre. In Ambrogio – annuncia quasi programmaticamente – «avvertiamo l’uomo, dunque amiamo il santo»[51]. L’attualità dell’illustre predecessore è percepita e comunicata dal pastore ai fedeli e si gioca sul problema «ad esempio, di fare cristiana una città di educazione pagana e priva ormai di fede religiosa»[52]. Se questa è la chiave di lettura ad extra, ad intra il Santo si impone come modello episcopale: «Uomo religioso per eccellenza, fu Vescovo, fondendo nella sua interiore esperienza e nella sua azione esteriore i due caratteri salienti della religiosità: la ricchezza dell’anima e la potestà dell’azione, il momento individuale della religione e il momento sociale, la santità personale e la disciplina ecclesiastica»[53].

Al pari di Ambrogio, San Carlo soccorre l’Arcivescovo con la sua modernità. La domanda si ripropone: «Cosa farebbe oggi San Carlo?»[54].

Così, annota Giorgio Rumi, se «fino a metà del Novecento, San Carlo ha rappresentato non solo il tipo ideale del vescovo, ma la fonte più importante della sostanza ecclesiale ambrosiana, la messa in atto più incisiva e autorevole dei dettati della Riforma cattolica […] è Giovanni Battista Montini a superare il crinale dell’apologetica, a inoltrarsi, con vigile risolutezza, con responsabile trepidazione, sul terreno di una commisurazione di quell’antico modello alla realtà dei tempi nostri»[55].

San Carlo e noi: nell’aderire totalmente al modello borromaico, non vi è in Montini alcuna «traccia di quella boria attualistica con cui sovente, dopo tanto tradizionalismo, ci si volge ora alla fede dei padri»[56]. All’Arcivescovo interessa «lo spirito delle leggi»[57] che si lega inscindibilmente con il fascino straordinario per il tempo e per il suo trascorrere.

È uomo esigente, l’uomo contemporaneo. Esigente innanzitutto di chiarezza e di verità. Contro ogni tentazione di mimetismo, l’Arcivescovo richiama alla serietà, alla responsabilità. «L’uomo moderno ha bisogno di chiarezza […]. Va al cinema, e tutto gli appare chiaro; va a teatro e avviene altrettanto; apre la radio e la televisione e tutto gli riesce comprensibile […], finalmente va alla Messa, e di tutto quello che gli si svolge davanti non capisce niente. Perché, proprio per questo atto stupendo, immenso, infinito, per questo dramma divino, in cui si incentrano tutti i destini dell’umanità, deve esistere tanta incomprensione, tanta mancanza di intelligenza, dovuta, in gran parte, a noi stessi, Ministri del Signore, che non abbiamo istruito adeguatamente il popolo?»[58].

Il dolore dell’Arcivescovo è chiaro nel momento in cui la conseguenza di tale “mancanza di intelligenza” si traduce in una lettura ironica dell’esperienza di fede: «Oggi è di moda […] combattere la Chiesa. Questo riesce anche facile. Facile è deridere la Chiesa; basta metterne in ridicolo il suo aspetto umano. E nulla è più vicino al ridicolo quanto la deformazione del sublime»[59]. Montini ha sempre davanti agli occhi quell’idea tutta paolina dell’anti-chiesa e della pseudo-chiesa: «L’argomento è di attualità. D’attualità per le esclusioni, per le oppressioni, per le persecuzioni […]. D’attualità per le discussioni […] sulla natura della Chiesa […] e quasi sempre circa due problemi caratteristici del nostro tempo, quello dell’autorità e quello della relatività. […] Alcuni che […] disdegnano ubbidirla con schietta cordialità, altri vorrebbero che la Chiesa fosse più conforme, piú relativa alla Storia, si adattasse cioè ai tempi»[60].

E se “fallire è meglio che equivocare”, compito della Missione del 1957, appare proprio quello di presentare alla città e alla diocesi il vero volto, non equivoco e non mimetico, della Chiesa, affinché Cristo possa risplendere nella sua vera luce.

«Quando vogliamo essere pii e manifestare sentimenti autentici, vivi e personali di religione, andiamo in cerca di devozioni – di cui non discuto né la legittimità né la bellezza – oppure attingiamo la religione alle sue genuine fonti? […] La nostra religione allora si esprime nelle formulette facili che mettiamo su tutti i bollettini […]. Forse andiamo anche più in là, riducendo i grandi misteri di Dio – come quello della Provvidenza – a delle bottegucce utilitarie, che rendono quattro soldi e fanno dei miracoli a buon mercato. E diamo questa religione al popolo nostro e al nostro tempo, senza avvertire che intorno a noi c’è dell’irreligiosità proprio perché non si vede la maestà della Fede […]. Noi dimentichiamo che l’uomo moderno fa più fatica a curvarsi davanti ai mille lumi di cui abbiamo riempito le nostre chiese, che davanti al Dio vivo che gli dovremmo presentare. […] È più difficile parlare agli uomini del nostro tempo ripetendo le devozioncelle con cui abbiamo appesantito – piuttosto che arricchito – la nostra pietà, che parlare del Cristo […] e di Dio, che si fa a noi Padre […]. Non sostituiamo la piccola religione alla grande»[61].

Montini non ha dubbi: solo parlando autenticamente di Cristo è possibile affascinare l’uomo contemporaneo e distoglierlo dai falsi miti che riempiono la sua vita. Si fa strada la questione del dialogo, nell’accezione montiniana, così a lungo travisata e storpiata da una pubblicistica superficiale e da una parte della Chiesa stessa, attratta dalle sirene della mimetizzazione. L’Arcivescovo lo sa bene: il pericolo «è quello di scambiare l’avvicinamento degli indifferenti, dei lontani, degli avversari con l’assimilazione al loro modo di pensare e di agire. Non saremo più dei conquistatori, ma dei conquistati. Il dialogo, metodo necessario all’apostolo, non deve terminare con una negazione, o un oblio della nostra verità, a profitto dell’errore, o della parziale verità che si voleva redimere»[62].

La Missione è anche una sfida diretta, quasi una scommessa lanciata dall’Arcivescovo all’uomo che lavora, che corre, con un linguaggio diretto, amichevole, intimo: «Ricordate quello che vi dico: ascoltate! Esiste l’arte di ascoltare! Voi, forse, nella vostra frettolosità, nel film continuo dell’esperienza che passa davanti a voi, avete più attitudine a percepire e meno ad ascoltare. Io vi dico: “Ascoltate un momento, approfondite, concedetevi una pausa di attenzione interiore, provate a mettervi a confronto con questa grande, sublime e familiare visione della vita e dell’universo![…]”. E poi tornate alle vostre occupazioni e mi direte se non siete diventati uomini migliori […] professionisti migliori»[63].

I risultati non sono quelli sperati. E la responsabilità Montini la cerca ancora dentro la Chiesa: «Anziché dargli l’essenziale […] abbiamo spesso presentato un cristianesimo fenomenico, esteriore, superficiale, devozionale, facoltativo»[64]. E tuttavia l’Arcivescovo riconosce che «la Missione ha messo in evidenza gli immensi bisogni pastorali della nostra città; il mondo della cultura, il mondo degli uffici, il mondo degli affari, il mondo dei giovani, specialmente, e quello del lavoro, aspettano un avvicinamento nuovo, amoroso, intelligente e sistematico. Non possiamo lasciare fuori dal raggio dello spirito cristiano i ceti più numerosi dei nostri concittadini, e i fenomeni più importanti della vita moderna»[65].

L’elezione al Soglio di Pietro introdurrà numerose varianti nelle convinzioni montiniane. Lo sguardo ampio sul mondo, i repentini cambiamenti e la voracità incontrollabile del consumismo e l’annichilimento culturale e civile del consumatore, porterà Montini a una visione se non pessimistica, certo meno fiduciosa nella possibilità di una cristianizzazione della modernità, avvicinandolo sempre più alle posizioni marcusiane. E Marcuse, ricorrerà sempre più nelle citazioni pontificie. E L’uomo a una dimensione diverrà per Paolo VI una lettura assidua e meditata e un riferimento essenziale per la sua nuova diagnosi della società contemporanea.

Le società industriali con le loro ricchezze e con le loro forme degradate di mentalità e di costumi si scontrano con l’altra parte del pianeta con le sue povertà; il tema della guerra è così pertinente con questo mondo che cambia tanto da divenire oltremodo significativo nella riflessione paolina, così come lo spettro atomico. La vita diviene il tema centrale del pontificato. La vita quale manifestazione originaria dell’amore di Dio e come paradigma indiscutibile per ogni società che possa dirsi umana. E tuttavia è proprio sulla vita che la modernità gioca la sua battaglia, prendendola in ostaggio come oggetto di riferimento e di scambio per affermare il primato ideologico della qualità e costruendo intorno ad essa un ordito semantico che di volta in volta cambia le carte in tavola. Neppure la parola dice più la cosa. La modernità sembra insomma non compiersi mai, anzi ciò che la caratterizza – e siamo ancora a Marcuse – sembra essere il suo inarrestabile movimento, una sorta di moto perpetuo che si mangia ogni cosa, che l’asserve, la mistifica, la rovescia rimettendola in gioco per un’altra partita. Paradossalmente, l’approdo montiniano sembra sovrapporsi al pessimismo dei critici marxisti. Nemmeno il Concilio, l’ultima titanica opera della Chiesa universale messa in campo per poter dialogare con la modernità, sembra intimamente a Paolo VI possa corrispondere all’esigenza di verità insita nell’uomo. Il post-concilio metterà in luce tutte le preoccupazioni maturate da Paolo VI. Al Papa sembra che la questione attenga al diabolico. Il male dalla storia è passato all’uomo, ne ha conquistato la parola divenendo “antiparola[66], ne ha pervaso il cuore pervertendo l’ordine degli affetti, ne ha occupato l’intelligenza guidandolo sulla strada della scienza in una corsa contro se stesso. E così «quanto più l’uomo cerca, studia, pensa, scopre e costruisce la sua gigantesca torre della cultura moderna, tanto meno si sente sicuro della validità della ragione, della verità oggettiva, della utilità esistenziale del sapere, della sua propria immortalità; il dubbio lo insidia, lo annebbia, lo scuote, lo avvilisce; egli si rifugia nell’evidenza delle sue meravigliose conquiste, egli si alimenta della sincerità delle sue esperienze, egli si fida del credito delle grandi e sonore parole di moda; ma in realtà il timore gli dà le vertigini sul valore di ogni sua cosa»[67]

Gli echi marcusiani sono in questo caso evidenti.  Eccolo l’uomo moderno, «naufrago nel mare del suo proprio umanesimo»[68]. «L’homme, existe-t-il?»[69]. Esiste l’uomo? Arriva a chiedersi il Papa sulla scorta di Maurice Zundel. Ridotto alla sua dimensione fisico-chimica, il suo destino non pone alcun problema. Si riduce addirittura a essere inutile. Insomma, la morte di Dio ha come conseguenza la morte stessa dell’uomo. Un uomo schiavo delle cose e “cosificato” egli stesso. Questa è l’essenza marcusiana, nella lettura montiniana, dell’unidimensionalità. E non mancano le citazioni dirette di Marcuse: «È contro l’uomo che dovete difendere l’uomo, l’uomo minacciato di non essere altro che una parte di se stesso, ridotto, come si è detto, a una sola dimensione (cfr. per es. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione[70]

La diagnosi montiniana è impietosa, ma sempre carica d’amore, poiché l’uomo non cessa di essere un mistero, una creatura, anche quando egli stesso rinnega la sua stessa creazione e, «rifiuta di essere ciò che è»[71]. Questione eminentemente culturale, dunque, che perverte l’anima, ma non ha origini nell’anima. Vi è dunque un pensiero negativo che si associa a un costume negativo e approda, a nuove forme di totalitarismo. 

«Voi certamente conoscete le espressioni, fieramente concrete e disgraziatamente totalitarie, a cui questa aberrazione del pensiero moderno è arrivata, quando ha affermato con aggressiva virulenza che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”, che l’antropologia deve sostituire la teologia, che al posto dell’Essere supremo si deve collocare l’umanità, che “Dio è morto” per l’uomo moderno. La religione non ha più ragione di essere, per questi profeti del materialismo, del positivismo, del fenomenismo sociale»[72].

Paolo VI fa riferimento in particolare a Marx, a Feuerbach, a Comte e a Hamilton riconoscendo, com’era stato per i Tre riformatori di Maritain, il ruolo significativo, sul piano della storia, del pensiero filosofico nella trasformazione della società e nella formazione delle mentalità.

La questione prende il nome di “secolarizzazione”. Meglio, nel linguaggio montiniano, è preferibile il termine “secolarismo”

«Non seulement les sciences, y compris les sciences humaines, les arts, mais l’histoire, la philosophie et la morale ont tendance à prendre comme unique source de référence l’homme, sa raison, sa liberté, ses projets terrestres, en deçà d’une perspective religieuse qui n’est plus partagée par tous. Et la société elle-même, désirant rester neutre face au pluralisme idéologique, s’organise indépendamment de toute religion, reléguant le sacré dans la subjectivité des consciences individuelles»[73]

Il Concilio costituisce uno dei momenti cruciali del pontificato di Paolo VI, il tentativo amorevole di ricucire una relazione amichevole con il mondo in trasformazione. Esso è dunque innanzitutto un grande sguardo sul Novecento, sui suoi bisogni, sui suoi linguaggi, sulle sue ambizioni. E, dentro il secolo, straordinario e terribile, è una mano tesa all’uomo contemporaneo perché possa tornare a guardare al mistero del suo essere recuperando tutte le dimensioni che gli sono proprie. Il Concilio, ereditato da Giovanni XXIII, nella prospettiva di Paolo VI è dunque un cammino storico, quindi un discorso, infine un’esperienza visibile di Chiesa, pulsante e gioiosa: «Aprite gli occhi dell’anima e guardate il volto, l’aspetto, la figura che la Chiesa vi presenta». «Non dice nulla il fatto, il fatto in se stesso, che il Concilio, e quale Concilio, sia stato celebrato in seno alla nostra esperienza storica e sociale? La religione, ci dice, esiste ancora; e come vissuta, come professata, come amata, come goduta!. E abbiamo abbastanza riflesso alla tendenza, palese specialmente nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno (lo Schema XIII) a valorizzare “religiosamente” il mondo della natura, la società umana in quanto tale, l’amore e la famiglia, la cultura e il lavoro, l’arte e l’economia, la sofferenza e la speranza umana, ecc., non solo per scoprirvi l’opera di Dio, ma la presenza di Dio, l’invito di Dio, la risposta di Dio? Noi siamo stati abituati a porre la religione ai margini dell’esperienza sensibile e della ragione scientifica, confinandola al limite delle nostre cognizioni sull’immensa sfera del mistero della natura, quasi che la religione si fondasse sull’ignoranza delle possibili soluzioni dei problemi oscuri, che un giorno la scienza potrebbe risolvere; ed ecco invece un ritorno dell’istanza religiosa, non tanto dai confini esterni della scienza, nei quali era stata relegata, ma al di sopra del campo scientifico, per scendere nel cuore di esso e per ricavare con antica e nuova sapienza, a sua esaltazione e a onore dell’umana conoscenza da quanto è, da quanto dice ordine, legge, fine, e bellezza un’apologia di sé, una sua propria necessità, e una sua giovanile capacità di riprendere l’inno della creazione e di tutto illuminare e beatificare. Rinasce, battezzata dalla sapienza evangelica, una religione naturale, che anche i grandi scienziati del tempo nostro non solo non hanno disdegnato di intuire nel cuore delle loro  ricerche, ma hanno presagito e riconosciuto»[74].

La stagione conciliare è una stagione di grande speranza. Paolo VI sembra intravvedere davvero una possibilità: dire Cristo è ancora possibile, anche dentro l’esperienza della modernità, e gli pare che i linguaggi dell’uno e dell’altra possano ritrovare significati e significanti comuni. Ma nella modernità la questione cruciale si appunta proprio sulla parola. Il problema è innanzitutto un problema del dire. Il contrasto, che prende forma e diviene drammatico proprio nel cuore di questa seconda porzione del Novecento, riguarda l’essenza stessa della parola: la parola-carne deve scontrarsi con la parola-cliché prima e poi, addirittura, con l’antiparola, ovvero con il mezzo privilegiato dall’anticristo. Insomma, anche la parola è schiava dell’ideologia. Anzi, ne è la forma prima.

Paolo VI riafferma dunque, nel clima conciliare, il Cristo carne e il Cristo parola, inscindibili nell’orizzonte esperienziale della Chiesa e della Salvezza. Ma come parlare all’uomo moderno, desemantizzato e ridotto alle troppo facili forme linguistiche della pubblicità, alle semplificazioni del linguaggio politico, alla banalizzazione di un discorso che solo sa descrivere la banalità di un’esistenza semplificata? E soprattutto, come evitare di correre il rischio, «in un mondo come il nostro, diffidente verso ogni linguaggio filosofico, e tutto rivolto al linguaggio della storia e ancor più a quello dell’espressione sensibile»[75], per dire cose all’uomo unidimensionato e lasciato senza parole, di aderire al suo stesso misero universo semantico? Ma le attese non portano i frutti sperati: «Semplificare e spiritualizzare, cioè rendere facile l’adesione al cristianesimo; questa è la mentalità che sembra scaturire dal Concilio: niente giuridismo, niente dogmatismo, niente ascetismo, niente autoritarismo, si dice con troppa disinvoltura: bisogna aprire le porte a un cristianesimo facile. Si tende così a emancipare la vita cristiana dalle così dette “strutture”; si tende a dare alle verità misteriose della fede una dimensione contenibile nel linguaggio corrente e comprensibile dalla forma mentale moderna, svincolandole dalle formulazioni scolastiche tradizionali e sancite dal magistero autorevole della Chiesa; si tende ad assimilare la nostra dottrina cattolica a quella delle altre concezioni religiose; si tende a sciogliere i vincoli della morale cristiana, qualificati volgarmente come “tabù”, e delle sue pratiche esigenze di formazione pedagogica e di osservanza disciplinare, per concedere al cristiano, fosse pur egli un ministro dei “misteri di Dio” (1 Cor. 4, 1; 2 Cor. 6, 4) o un seguace della perfezione evangelica (cfr. Matth. 19, 21; Luc. 14, 33), una cosiddetta integrazione con il modo di vivere della gente comune. Si vuole, ripetiamo, un cristianesimo facile, nella fede e nel costume. Ma non si va oltre il confine di quell’autenticità, a cui tutti aspiriamo? Quel Gesù, che ci ha portato il suo vangelo di bontà, di gaudio e di pace, non ci ha forse anche esortati ad entrare “per la porta stretta” (Matth. 7, 13)? E non ha forse preteso una fede nella sua parola, che va oltre la capacità della nostra intelligenza?»[76]

La preoccupazione di proporre all’uomo contemporaneo la verità tutta intera e di non cadere nella tentazione diabolica di sottrarre ad essa frammenti che accondiscendano alle mentalità correnti, insomma una verità disinnescata, è condizione indispensabile per dialogare con l’uomo contemporaneo: «Nell’attuale crisi che investe il linguaggio e il pensiero, spetta a ciascun vescovo nella propria diocesi, a ciascun sinodo, a ciascuna Conferenza Episcopale curare attentamente che questo sforzo necessario non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede. Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l’annuncio della sua Parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni. Ma anche se noi – ci previene l’apostolo Paolo – o anche un angelo del Cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunciato, sia anatema»[77]

E tuttavia, non è forse proprio sul piano della parola che dice la cosa, che si fa sempre più ampia e drammatica la distanza tra la verità e la comprensione dell’uomo contemporaneo del mondo e di se stesso? Quella che Marcuse chiama «la chiusura di un universo di discorso»[78],  che contrassegna negativamente la capacità della parola di dare forma al pensiero, di descriverne i movimenti e l’ansia di ricerca, genera insomma un linguaggio che «tende a esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione»[79]

L’operazione che si compie è quella di una «riduzione di significato che ha una connotazione politica»[80]. In tal modo, «le nuove definizioni sono falsificazioni che, imposte dalle potenze in atto e dai poteri di fatto, servono a trasformare la falsità in verità»[81].

E siccome, «succede – spiega il Papa – che il mondo moderno è come preso dal fascino di queste sue novità, dell’intero apparato che trasforma la materia prima in tante meraviglie, ecco che un’ulteriore operazione della modernità è la semplificazione del linguaggio, capace al più di descrivere le cose a portata d’esperienza e le fugaci emozioni che esse provocano in un lasso di tempo ristrettissimo e senza proporzioni. L’uomo moderno è come abbagliato da tanta potenza, alla stessa guisa che, ad esempio, il lampo del fotografo colpisce per un attimo gli occhi dei circostanti e li pervade della sua luce. Spesso si comporta come un ragazzo, così rapito da un nuovo giocattolo, da non scorgere, talvolta, persino gravi pericoli, pur di seguirlo e di non privarsene neppure per breve momento. Gli uomini sovente si comportano come dei ragazzi. Incantati dai congegni e dai successi della propria iniziativa, dai progressi cospicui della tecnica, ritengono che ciò basti; sia tutto; rechi con sé la felicità»[82]

Sono dunque la parola e il linguaggio, come strumento creativo di relazione con le cose, con gli uomini e con Dio, a essere cancellati da una tale operazione di appiattimento esperienziale rivestito di magia e di stupore per i progressi della techné. E in tale silenzio ronzante l’uomo vive la dimensione della solitudine.

«L’eccessivo e predominante tecnicismo potrebbe soffocare ogni altra esigenza, fino a dimenticare la dimensione spirituale, l’unica che dia valore all’uomo di oggi e di sempre, la sola che lo salvi dalle insidie dell’autosufficienza egoistica come dalle ansie della solitudine e dell’incomunicabilità»[83].

Scienza, tecnica e linguaggio appartengono alla vita dell’uomo, l’unica vera e sacra ragione di ogni sforzo umano. E tuttavia è proprio sul tema della vita  che le tre forme decisive dell’umano cercare, del fare e del raccontare, sembrano impazzire in un’euforica autoreferenzialità. Cercare per cercare, fare per fare e dire per dire: sul tema della vita l’umano sembra volersi sbarazzare di ogni forma di umanità, come avvitato su se stesso, contento dei suoi successi e insieme terrorizzato dal più grande dei misteri: «la vita, la vita dell’uomo»[84]. «Les hommes ont de plus en plus le besoin d’être éclairés sur le sens de leur propre vie et la marche de l’humanité»[85]

Paolo VI sa bene che scienza, tecnica e parola, costituiscono ormai la materia di conformazione della società, sono esse stesse nella loro simbiosi, società e, dunque, mentalità. Per la prima volta nella storia dell’umanità, la cosiddetta modernità abbassa a sentire comune, con le banalizzazioni del caso, i paradigmi del pensiero scientifico. Vi è come una sorta di trasduzione volgare dei principi primi della scienza, che diviene discorso quotidiano e, dunque, anche universo politico, oltre che sociale con le inevitabili conseguenze sul piano dei diritti e dei doveri e sul meccanismo di produzione legislativa.

Sotto tale spinta, che vede scienza e tecnica con il relativo discorso ormai totalitariamente al vertice del sistema dei valori e delle possibilità, cambia non solo la sostanza del comportamento umano, ma la natura stessa dello Stato, che si manifesta sempre più come servo sciocco della scienza, incapace di un discorso politico pertinente, asservito alla baldanza di un linguaggio incomprensibile e demoralizzato.

La corsa della triade (scienza, tecnica e suo discorso) è d’altra parte così veloce, che qualsiasi tentativo di comprendere, diviene vano e velleitario. La cultura arriva sempre un passo indietro, il linguaggio fatica a trovare parole che non siano quelle imposte dallo stesso pensiero scientifico e soprattutto dalla sua traduzione tecnica. Se il linguaggio ha a che fare direttamente con la morale, perché dà forma al rapporto con le cose, ecco che esso si presta immediatamente per accreditare l’inesorabile e progressiva potenza della scienza, che sempre più pretende di avvicinarsi non solo ai segreti di Dio, ma alla sua stessa sostanza. Creare: la questione si attesta su tale presunzione. E se Dio, nel suo gesto primordiale si domandava – e vedeva – che ciò che aveva fatto era buono, l’uomo ha dismesso la domanda morale sostituendola con la domanda tecnica: siccome è possibile, si può fare. Il quadro è tracciato da Paolo VI in pochi passaggi: «La condizione dell’uomo è tremendamente aleatoria: la violenza, in tutte le forme, lo avvilisce e degrada al rango di pedina di un gioco cieco, e non di rado lo distrugge spietata e crudele; l’influsso determinante dei mass-media lo manovra dal di fuori, lo condiziona sovente nei suoi sentimenti e pensieri, si sostituisce a lui facendolo ragionare a senso unico in un pericoloso e contrastante livellamento delle personalità; la società dei consumi lo rende schiavo dei bisogni procurati ad arte; una concezione alienante della vita lo assorbe totalmente, proiettandolo non di rado fuori della vera dimensione umana, che è libertà, autodeterminazione, vita intellettuale e spirituale, gioia di vivere. L’uomo è soprattutto condizionato oggi da un’atmosfera materialistica, dalla quale non riesce a liberarsi: visione della storia, concezione della vita, tempo libero, svago e spettacolo, sono non di rado totalmente pieni di edonismo, di determinismo, di materialismo; perfino la scienza è spesso impostata in modo tale che, invece di liberare autenticamente l’uomo, lo spinge ancora più profondamente in questa corrente materialistica, la cui forza è caratterizzante della storia e della cultura contemporanea»[86]

L’ultima enciclica di Paolo VI è dedicata alla vita. L’Humanae Vitae è del 1968. Nei successivi dieci anni il Papa non ne pubblicherà altre. Possiamo considerare questo documento come il canto conclusivo di una visione tragica dei tempi moderni. Paolo VI coglie innanzitutto che le trasformazioni del costume e della mentalità, incidono in primis su una nuova consapevolezza della sfera della sessualità e sulla sua gestione e hanno ricadute significative non solo sulla natura stessa della relazione coniugale e sulla famiglia, anche in ambito cattolico, ma su un’intera visione di società e, in fondo, di umanità. Una società individualistica e sempre più emotiva: questo è il quadro di riferimento che ha davanti il Papa. Inutile sottolineare come tale deriva abbia portato a risultati devastanti proprio sul piano di una felicità possibile dentro l’orizzonte della “comunità d’amore” indicato dallo stesso Paolo VI. In questo senso la risposta autonoma di Montini alle grandi questioni teologiche e morali che sottostanno all’enciclica e che il Papa ha affidato a un’apposita commissione (in realtà Paolo VI non accoglie le conclusioni dei lavori) pone al centro della questione l’amore coniugale come amore pienamente umano, totale, fedele e fecondo, e come principio primo della società.

Ma vi è un’altra questione decisiva che l’Humanae Vitae pone con evidente modernità e che si proporrà all’attenzione dell’uomo moderno soltanto qualche anno più tardi: il rapporto tra “esperienza naturale” ed “esperienza artificiale”. Insomma, il Papa si pone una delle domande cruciali della modernità che riguardano proprio il senso e il peso, il valore della tecnica nella vita dell’uomo, fin dentro lo spazio misterioso dell’innesco vitale. Non che Montini disconosca i progressi dell’uomo, le sue conquiste, le sue invenzioni. Come sempre è la questione dei fini (e dei significati) che lo preoccupa e soprattutto la possibilità del pensiero dell’uomo di riconoscere gli estremi della propria piena umanità. Ed è qui che si colloca il pessimismo montiano. Sulle orme di Augusto Del Noce, sembra intravvedere che la modernità segna un «punto di non ritorno», in cui «la grande cesura rappresentata dalla modernità sarebbe lo svolgimento pieno del motivo antropologico, in ragione di cui alla trascendenza raffigurata come un “al di là” si sostituirebbe una trascendenza intra-mondana. Il cristianesimo continuerebbe a sussistere nella forma non più religiosa, ma di filosofia»[87]

Solo la fede, incrollabile e altrettanto tragica nel Dio fattosi uomo, sorregge quest’uomo negli ultimi anni della sua vita. E qui Montini si differenzia con critici di radice marxista. Ma forse soltanto qui.

1)

«Basterà qui ricordare – scrive Luciano Gallino nell’Introduzione a H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, pp.VII-VIII – gli Studi sull’autorità e la famiglia, opera collettiva del 1936, e, dello stesso anno, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin; Ragione e rivoluzione (1941) ed Eros e civiltà (1955) di Marcuse; la serie degli Studi sul pregiudizio pubblicati negli Stati Uniti a cura di Horkheimer e Samuel H. Flowerman (1949 e sgg.), che includono la fondamentale ricerca sulla Personalità autoritaria di Adorno e altri (1950); la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer (1947) e la Dialettica negativa dello stesso Adorno (1966); le grandi ricerche di Karl A. Wittfogel sulla società cinese e il dispotismo orientale (1931-57); la Storia critica dell’opinione pubblica\ di Habermas (1962); sino alle analisi di Horkheimer sul conflitto tra ragione strumentale e ragione oggettiva raccolte in un unico volume nel 1967 a cura di Alfred Schmidt, egli stesso collaboratore e autore della Scuola francofortese».

2)

«L’illuminismo – scrive Carlo Galli – è insomma un razionalismo irrazionale, un affrancarsi del mito che non si libera dalla mitologia, di cui condivide la coazione a pensare se stesso e le proprie condizioni d’esistenza come natura e destino. La riflessione è cattiva natura riflessa; e la mediazione si dà come cattiva immediatezza». C. Galli, Introduzione a M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2011, p. XV.

3)

M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit.

4)

Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2011.

5)

A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2013.

6)

L. Gallino, Introduzione, cit. p. XI.

7)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p.19.

8)

Ibi, p. 23.

9)

Ibi, p. 30.

10)

M. Horkheimer T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 11.

11)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p. 19.

12)

M. Horkheimer T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit. p. 150.

13)

Ibidem.

14)

Ibidem.

15)

Ibidem.

16)

M. Horkheimer T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit. p. 15.

17)

Ibidem.

18)

«Insomma, se non c’è in questo libro – in ogni caso un testo in qualche modo “classico” del nostro secolo – un insieme di strumenti per analizzare e risolvere le sfide che la storia ci pone davanti, ci sono almeno una voce e una testimonianza. Che fanno di Dialettica dell’illuminismo una sorta di possibile antidoto al rischio del nostro incantamento; al rischio che acconsentiamo a racchiudere la nostra libertà in spazi sempre più angusti, che accettiamo come naturale l’affermarsi del “pensiero unico” e di un unico modello mondiale di civiltà e di produzione (la cosiddetta “globalizzazione”); al rischio per certi versi opposto ma concomitante che liquidiamo troppo facilmente come “altro” dalla nostra civiltà razionale la barbarie che riaffiora nei neotribalismi in cui pare spegnersi la modernità con il suo universalismo». Cfr. C. Galli, Introduzione, cit., pp. XLII-XLIII.

19)

L’opera viene pubblicata in Italia nel 1928 dall’Editrice Morcelliana di Brescia con la traduzione e la Prefazione di Giovanni Battista Montini.

20)

Il testo della Prefazione è stato pubblicato sul Notiziario dell’Istituto Paolo VI di Brescia (d’ora in poi Notiziario), n.42, novembre 2001, pp.57-59.

21)

Ibi, p. 58.

22)

J. Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté, Aubier, Parigi 1936, tr. it, Umanesimo integrale, Borla, Roma 1977.

23)

«Con Antimoderne del 1922 – scrive Pietro Viotto nella Presentazione di Umanesimo integrale – Maritain precisa la sua posizione: superato l’iniziale materialismo e socialismo, superato anche il bergsonismo che pure l’aveva portato allo spiritualismo, il suo pensiero si presenta come “antimoderno” per quanto di immanentismo, di naturalismo, di irrazionalismo, di individualismo contiene la filosofia moderna, ma decisamente “ultramoderno” rispetto alle conquiste della scienza, della filosofia, della politica, di questi ultimi secoli, che hanno affermato la loro autonomia rispetto la teologia e la religione. Purtroppo questa presa di coscienza del valore autonomo della cultura dalla religione è avvenuta polemicamente, in opposizione alla teologia; e si è giunti allo scientismo, all’idealismo, al socialismo che pretendono l’autonomia assoluta della scienza, della filosofia e della politica». P. Viotto, Presentazione in J. Maritain, Umanesimo integrale, cit. p. 8.

24)

J. Maritain, Umanesimo integrale, cit. p. 79.

25)

Ibidem.

26)

Ibidem.

27)

Ibi, p.80.

28)

Ibidem.

29)

Ibi, pp. 111-112.

30)

Ibi, p.124.

31)

Ibidem.

32)

Ibi, p.108.

33)

G.B.Montini, Lettere ai familiari 1919-1943, a cura di N. Vian, Istituto Paolo VI, Brescia 1986, v. I, p. 25. Si veda, per questa stagione giovanile della biografia di G.B. Montini, G. Scanzi, Paolo VI. Fedele a Dio fedele all’uomo, Studium, Roma 2014 e Id., Paolo VI e il Novecento. Una poetica della vita, Studium, Roma 2017.

34)

Per una storia del movimento cattolico italiano si veda G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Laterza, Bari 1966. Sulla figura di Giuseppe Tovini si veda G. Scanzi, Giuseppe Tovini. Le opere e i giorni, La Scuola, Brescia 1998.

35)

G. B. Montini, Le idee di S. Paolo. Apologia e polemica, [1931] in Id., Scritti fucini (1925-1933), a cura di M. Marcocchi, Istituto Paolo VI – Studium, Brescia – Roma 2004, p. 511.

36)

Ibi, p. 513.

37)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p. 28.

38)

Cit. in G. Rumi, Il senso della storia in Paolo VI, in Educazione, intellettuali e società in G.B. Montini-Paolo VI, Istituto Paolo VI, Brescia 1990, p. 119.

39)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 30.

40)

Ibi, p. 23.

41)

In Discorsi e scritti milanesi (1954-1963) [d’ora in poi DS], prefazione di C.M. Martini, Introduzione di G. Colombo, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 1997-1998, pp. 4408-4409.

42)

Ibi, p. 399.

43)

Ibi, p. 4152.

44)

Ibi, p. 4691.

45)

Z. Bauman, Modernità liquida, cit.

46)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p. 40.

47)

Ibidem.

48)

DS, p. 5464.

49)

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p. 19.

50)

DS, pp. 4027-4033.

51)

Ibi, p. 3191.

52)

Ibi, p. 1099.

53)

Ibidem.

54)

Ibi, p. 481.

55)

G. Rumi, Montini e San Carlo, in Perché la storia. Itinerari di ricerca (1963-2006), LED, Milano 2009, p. 877.

56)

Ibidem.

57)

Ibidem

58)

DS, p. 1698.

59)

Ibi, p. 267

60)

Ibi, p. 5159.

61)

Ibi, pp. 1703-1707.

62)

Ibi, p. 3265.

63)

Ibi, p. 1787.

64)

Ibi, p. 1357.

65)

Ibi, p. 1849.

66)

Paolo VI, Gli appunti di Paolo VI durante gli esercizi spirituali dettati dal card. Wojtyla, in Notiziario, 49, giugno 2005, p. 65

67)

Insegnamenti di Paolo VI (d'ora in poi Ins.). VIII, (1970), p. 246

68)

Ibidem.

69)

Ibidem, p. 861

70)

Paolo VI, Discorso al Bureau international du travail, Ginevra (10 giugno 1969), in Insegnamenti di Paolo VI, VII (1969), p. 374.

71)

A. Camus, L'uomo in rivolta, cit. p. 13

72)

Ins. XII (1974), p. 666

73)

Ibidem, IX (1971), p. 192

74)

Ibidem, IV (1966), p. 710

75)

Ibidem, VIII (1970), p. 444

76)

Ibidem, VII (1969), p. 983

77)

Ins. VII, (1969), p. 472

78)

H. Marcuse, L'uomo a una dimensione, cit. pp. 96 e sgg.

79)

Ibidem, p. 97

80)

Ibidem, p. 99

81)

Ibidem, p. 109

82)

Ins. II (1964), p. 221

83)

Ibidem, p. 360

84)

Paolo VI, Pensiero alla morte, in P. Macchi, Nell'intimità di Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2000, p. 15

85)

Ins. VI (1968), p. 59

86)

Ibidem, XII (1974), p. 576

87)

A. Del Noce, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 43-44.