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Arrivederci, ragazzi: quando gli adolescenti vogliono abbandonare Internet

Secondo un sondaggio condotto nel Regno Unito, quasi metà dei ragazzi e delle ragazze inglesi vorrebbe chiudere Internet. L'unico problema? Se approfondisci la notizia, capisci che quello di cui si parla… non è Internet.

Di Anna Giunchi 23/06/2025

Il 46% dei ragazzi e delle ragazze vorrebbe un mondo senza Internet. È il risultato lapidario, inequivocabile, anche sconvolgente, di un’indagine condotta dal British Standards Institution nel Regno Unito, lo scorso maggio, su un campione di giovani tra i 16 e i 21 anni. Addirittura “il 70% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi peggio dopo aver passato del tempo sulle piattaforme social”, afferma il Corriere. Una notizia troppo ghiotta per non pubblicarla seduta stante… ehm… sulle piattaforme…Non a caso diverse testate, dal Corriere suddetto a The Vision, non se la sono fatta scappare. 

Noi, invece, abbiamo aspettato.

Anche se, beh, sulle prime, diresti, la cosa finisce qui. Perché aspettare? È una sentenza di morte, una dichiarazione di guerra, un’ammissione di sconfitta…anche se non sai bene chi sia, lo sconfitto: la rete, che “fa male”? I ragazzi, vittime di un mondo connesso, troppo connesso? 

Quando ho letto per la prima volta questa notizia, ho provato, prima di tutto, una profonda tristezza. Devo fare outing: se sono ancora valide le categorie coniate a suo tempo da Eco degli “apocalittici” e degli “integrati” (eccome se lo sono!) io sono più che un’integrata… io sono una stra-integrata. Mio padre, Giorgio, fu definito a suo tempo “cuore pulsante dell’Internet italiano”. Era un maestro elementare che negli anni Ottanta frequentava i convegni degli internettari… prima ancora che Internet si chiamasse così – perché, diceva, “sento che è importante” –; faceva parte di Isoc, l’associazione di Cerf e Kahn, i “papà di Internet”; è uno che ha creato un sito – da bravo amanuense della rete, rigorosamente in html – sulla Storia di Internet; insomma, se lo cerchi, nel web – Giorgio Giunchi – troverai diverse cose su – e – di lui. Sentire che la generazione nativa digitale non ne vuole sapere, di quella rete che era tanto importante per la mia famiglia…beh, fa male. 

Dall’altra parte, però, quando ho letto per la prima volta questa notizia, ho avuto la sensazione immediata che la questione non fosse così semplice come veniva posta. Quella schiera di titoli praticamente tutti uguali, così fortemente, furbescamente apocalittici (click-bait, per dirla come i ggiovani) non mi tornava. Una notizia, spesso, è trattata come una superficie piatta, quando, invece, è un iceberg. Cosa c’era sotto la punta-titolata di quell’iceberg? Cosa si nascondeva dietro quella sequela di sentenze? E soprattutto, cosa c’entrava quella frase, che mi tornava in mente come un mantra distorto, “il 70% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi peggio dopo aver passato del tempo sulle piattaforme social”?

Per capirci qualcosa, sono andata sul sito www.bsigroup.com. Anche lì, nella pagina dedicata all’inchiesta, quel titolo: Half of young people want to grow up in a world without internet. Quello ripreso ancora e ancora e ancora sulle varie testate. Nulla di nuovo o sconvolgente, si chiama “tematizzazione”, tutti parlano delle stesse cose più o meno con le stesse parole, soprattutto se sono squillanti, allarmanti, sopra le righe. E poi, sulla carta, niente da eccepire: era vero, il 46% diceva effettivamente di non volere internet, il 46 % è quasi la metà, il numero è quello e i numeri non mentono.

Perché i numeri non mentono, vero? No, e qui sarò io, lapidaria: i numeri mentono. O meglio, i numeri sono strumenti demagogici, sono in mano a chi li costruisce, a chi li utilizza, dipendono dagli scopi, dai giudizi e pregiudizi di chi li cerca e trova. Scopi anche nobili, eh, intendiamoci…ma la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, dice qualcuno. Basta vedere cosa accade, spesso, coi sondaggi pre-elettorali: quante volte danno per vincitore un candidato, e invece la spunta il suo avversario? Forse, perché, chi si occupa di gestirli, quei sondaggi, inconsciamente, ne influenza l’andamento, trovando quello che vuole trovare? Forse perché il modo di porre le domande, o le domande stesse, il modo di cercare i dati, il modo di ricostruire in target, può deformare il risultato, anche se involontariamente? Non è mala fede… è solo un bias. 

“Il 70% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi peggio dopo aver passato del tempo sulle piattaforme social”. Di nuovo il mantra distorto, di nuovo un numero.

Nel leggere i risultati dell’inchiesta e le rispettive analisi, nel ragionare su quanto veniva riportato, mi sono resa conto di un punto: le domande poste durante l’indagine britannica non riguardavano necessariamente di Internet. Si parlava indifferentemente di Internet, smartphone, piattaforme social, come se fossero la stessa cosa. Ma non lo sono. 

In un video di tempo fa, che mi è capitato solo in questi giorni sott’occhio (magie della profilazione) lo youtuber Poldo, che è uno sveglio, dice una cosa interessante: più o meno che, se oggi chiedi a qualcuno che cosa sia Internet, ti risponderà che è smartphone e social. Nella spontaneità pop dell’affermazione, come spesso accade con questi indagatori irrituali del presente, c’è molto di vero.

Il punto è proprio questo: oggi la stragrande maggioranza del target dell’indagine britannica – e non solo – è convinta che Internet sia smartphone e piattaforme social. Forse, anche chi ha concepito l’inchiesta, visto il modo con cui sono costruite le domande, ne è convinto. Ma non sono per nulla la stessa cosa. 

Da anni, chi studia le tecnologie della comunicazione, rileva questo diffusissimo errore… è qui l’intoppo, dice il Bardo. Perché queste tecnologie – straviziate, stravissute, senza tregua – le studiano davvero in pochi. La gran parte degli user le impara… “a sentimento”. E questo buco culturale ha una serie di  conseguenze decisamente importanti, se ci pensate. Una, solo apparentemente secondaria, ma lampante, per chi ha a cuore la materia: la convinzione diffusa – e per “diffusa” intendo che anche molti divulgatori e giornalisti l’hanno fatta propria – che Internet sia un medium. Vale a dire, un apparato finalizzato alla produzione e distribuzione di contenuti… Ma Internet non fa questo. Internet non produce contenuti. Internet è lo spazio virtuale in cui circolano, i contenuti. Fatti da altri, però. Dai media, dagli utenti; da professionisti, ingenui, burloni o criminali.

È un po’ come se pensassimo che l’ANAS fosse responsabile del fatto che un latitante, responsabile di una strage di massa, circola liberamente sulla Provinciale 12; il compito dell’ANAS è manutenere la strada e tutti gli apparati connessi, non mantenere l’ordine pubblico. Così, anche Internet è l’“autostrada” su cui circolano, i contenuti…ma non si occupa di essi. Non è il medium che li produce, non è il social che li organizza, né lo smartphone che li rende – sempre, ovunque – disponibili. Internet non è responsabile dei contenuti che circolano sulla propria rete, esattamente come l’ANAS non è responsabile delle persone che battono l’asfalto. Se aumentano i criminali che passano sulla Provinciale 12, non è colpa dell’ANAS. È colpa della società. 

Nel modificarsi – enormemente – rispetto alle origini, Internet è diventato un “posto” difficile da comprendere: i social sono habitat, distorti e fatti di “bolle sociali” (tutto il contrario di quello che avrebbero voluto i pionieri che conosceva mio padre, per la cronaca); lo smartphone è una protesi. Non avendo idea di che cosa sia effettivamente Internet, una situazione così magmatica, ovviamente, diventa ancora più scivolosa.

Ritornando all’indagine si notano risultati interessanti: sul diffuso senso di insicurezza e fragilità che i giovani vivono nella loro quotidiana esperienza online; sulla natura abnorme, totalizzante, dilagante di quell’esperienza; sulla diffusa e sentita necessità di avere maggiori regole e controlli (restrizioni dell’età e coprifuoco serale, come nella Paleotelevisione di Bernabei). Si parla di ansia, di paura. Questioni complesse ed interessanti, che dicono parecchio del presente e del futuro (in fondo, parliamo di adolescenti). Sono dati da studiare, da approfondire.

In questo senso, probabilmente, alcuni di voi potrebbero pensare la questione Internet-non Internet, sia un po’ di lana caprina. Il problema alla base è invece profondo, radicato, sociale e culturale. Finché si continueranno ad usare certi strumenti senza cognizione di causa, senza profondità, senza consapevolezza e formazione, quegli stessi strumenti saranno spaventosi, distorti. Quegli strumenti finiranno con il sostituire il nostro quotidiano e la nostra esperienza, perché non sappiamo dove iniziano e dove finiscono. Non è possibile mettere confini, se chi li usa, per primo, non ne conosce i confini. Soprattutto, è pericoloso. È un po’ come se guidassi una macchina a tutta velocità sulla Provinciale 12, senza patente, a fari spenti. Sarà difficile poi accusare la strada dell’incidente che hai provocato.

 

Anna Giunchi

(Executive Editor di «IO01 Umanesimo Tecnologico»)