Keywords
Rappresentazione della realtà, Manipolazione delle immagini, Cliché visivi, Creatività, Digitalizzazione
Con l’avvento della fotografia, la realtà diventa funzione dell’immagine. L’immagine non rappresenta più la realtà, come succede con la pittura, ma ne è testimone, la documenta. È concreta, pura, affidabile.
«Certo che è successo cosí, ne abbiamo la foto», ammettiamo implicitamente che l’esistenza effettiva di un determinato evento nel passato venga certificata e verificata […] dalla sua rappresentazione fotografica»[1].
Già agli inizi degli anni Novanta, con le idee di W. J. Mitchell espresse in The Reconfigured Eye, si comincia a parlare di «morte della fotografia», e, a seguire, di «post-fotografia». Con il passaggio dall’analogico al digitale, la fotografia non è più considerata rappresentazione del reale in maniera “pura”. Teorici come Flusser parlano di “immagini tradizionali”, che traducono in analogico la realtà circostante, e “immagini tecniche”, che traducono in digitale dei “testi”, intesi come sequenze di codici binari[2].
Il quasi omonimo di W. J. Mitchell, W. J. T. Mitchell, non vede il passaggio dall’analogico al digitale come una rottura, ma come un proseguimento. È sempre stato possibile manipolare immagini fotografiche (e lo si è sempre fatto), anche prima del digitale. Nel suo saggio Realismo e immagine digitale, W. J. T. Mitchell mette in discussione anche il concetto di realismo. Il realismo non appartiene a un medium nello specifico. Le fotografie, e le immagini in generale, possono essere degli strumenti di rappresentazione del reale, non lo sono per loro natura, che siano analogiche o digitali[3].
Oggi, con i vari servizi che permettono di generare una fotografia (o qualsiasi altro tipo di immagine) attraverso un suggerimento testuale (prompt), non c’è più nessuno scarto temporale tra
«la cattura del reale (l’input), la sua esibizione (l’output) e la sua eventuale successiva manipolazione (l’editing)»[4].
Non c’è più neanche manipolazione, c’è solo generazione. Oggi, ancora più di prima, W. J. Mitchell potrebbe dire che l’immagine fotografica ha davvero perso qualsiasi “aderenza al referente”. È diventata una rappresentazione della realtà, come è stata considerata in precedenza la pittura.
Parlando di mancanza di “aderenza al referente”, sia nel mondo precedente che successivo alla svolta digitale, c’è un tipo di immagine che è sempre stato al confine. Rappresentano una realtà che non esiste, o meglio, rappresentano una realtà stereotipata. Sto parlando delle immagini stock.
C’è stato un periodo in cui usavo molto spesso le immagini stock. Seguivo dei progetti che ne richiedevano tante. Avevamo più abbonamenti ad alcuni dei più noti servizi online. Ho passato un tempo infinito a cercare quella giusta, che poi non trovavo mai. A un certo punto le vedevo ovunque, le individuavo al volo sulle copertine dei libri o all’interno di riviste.
Ricordo che nello studio in cui lavoravo ci divertivamo a raccogliere e scambiarci le foto assurde di queste librerie. Con cliché che non capivamo quanto fossero sollecitate dal mercato (i clienti di questi servizi) e quanto fossero congenite.
In un articolo, a seguito del corto circuito relativo alla campagna sul Fertility Day di qualche governo fa[5], il giornalista Michele Smargiassi parlava proprio dell’assenza di un referente reale nelle immagini stock:
«Sono immagini paradossali dal punto di vista fotografico: rappresentano tutto tranne il loro referente reale. A chi le usa e a chi le guarda non interessa chi siano davvero le persone che vediamo»[6].
Il loro essere adatto a tutte le circostanze, la loro apparente banalità è la loro forza.
«Raccolgono, confermano e rilanciano tutti i luoghi comuni, tutti i pregiudizi di genere e razza e diseguaglianza sociale»[7].
Smargiassi riprende Paul Frosh, che «ribalta una celebre definizione di Roland Barthes: le foto di stock sono “codici senza messaggio”»[8].
Oggi, le immagini generate dai vari servizi di ”intelligenze artificiali“, come ci piace chiamarli, si avviano a diventare le nuove immagini stock. Quasi tutti i servizi più noti inglobano funzioni di “suggerimento”. Ne sono anche nati servizi, come Lummi.ai, che ha nella sua libreria solo immagini generate da AI, con una tag line che recita: AI stock images that won’t make you cringe.
In un articolo [9] proprio dal titolo AI art is the new image stock, Information Architects[10] prova a individuare i cliché delle immagini generate con AI, emersi in poco tempo.
Le riconosciamo e sembrano tutte uguali
Ormai le immagini generate dalle intelligenze artificiali le riconosciamo. Quando mi è capitato di condividerne qualcuna sui social, senza menzionare l’origine, quasi tutti hanno capito da dove provenivano. Qualcuno ha riconosciuto subito pure il servizio che avevo usato.
Come quando si usano le immagini stock, per rappresentare il team della propria azienda, l’immagini AI potrebbero sollevare dubbi sull’autenticità del contenuto e del prodotto, e pensare qualcosa del genere:
«Se utilizzano l’AI economica per le immagini, probabilmente la usano anche per il resto»[11].
Si assomigliano un po’ tutte. Se si ha un minimo di senso del linguaggio visivo sembrano tutte uguali. Possono sembrare esteticamente accattivanti, ma comunque sono riconoscibili come immagini AI.
Mancano di emozione
Al momento, le immagini AI sono fredde e in alcuni casi anche un po’ inquietanti. Il servizio Lummi.ai (citato prima) ha dovuto specificare che non lo sono, evidenziandone il problema.
Le immagini non sono solo composizione e colore. Le immagini dovrebbero raccontare qualcosa, attraverso lo stile, il tono. Se è vero che un’immagine possiede delle qualità strutturali che la fanno funzionare, è anche vero che se da un’immagine emerge un’atmosfera inquietante, cringe appunto, quell’atmosfera influenzerà tutto il resto.
Problemi etici
Le immagini AI amplificano ancora di più i cliché e i pregiudizi, già abbondantemente presenti nelle immagini stock. Per le immagini AI c’è poi il problema del copyright, che ancora non si capisce come sarà gestito.
In ogni caso, senza una gestione maniacale di ogni singola parola del prompt vengono fuori «immagini che non dicono nulla se non: “Ho usato l’IA per aggiungere colore”»[12].
A questo punto della lettura, o forse già prima, l’articolo di Information Architects ci fa notare che qualcuno avrà già pensato (detto o scritto) che questo è solo l’inizio, che poi arriveremo al punto che non vedremo più la differenza. Nel pensare al dopo, dovremo intanto pensare all’oggi. Ora ce ne accorgiamo. E in ogni caso, quando in futuro non ci accorgeremo della differenza, saranno sempre immagini stock. Dovremo quindi comunque impegnarci nella scelta di immagini che si adattino al nostro messaggio. Usarle consapevolmente.
In ogni caso, nel “dopo” potrebbe succedere altro. Immagini generate dalle intelligenze artificiali, sempre migliori, potrebbero darci una nuova visione, come è successo in passato nell’arte, con l’avvento della fotografia. La fotografia ci ha fatto mettere in discussione l’arte tradizionale, dando vita all’impressionismo. Lo so, sto semplificando. Il punto è che le nuove tecnologie, qualsiasi esse siano, hanno sempre spinto le persone a trovare e guardare altro. Sarà per la nostra primordiale attrazione alla scarsità (le disponibilità limitate ci sembrano sempre più interessanti), sarà per la necessità di volersi sempre evolvere, ma la sovrabbondanza di immagini già fatte e preconfezionate potrebbe generare una «nuova ondata di creatività umana e innovazione e artigianale nel racconto verbale e visivo»[13].
Le nuove tecnologie hanno sempre influenzato gli artisti. Degas, si ispirava moltissimo alle fotografie. Le copiava, ne imitava l’effetto della sfocatura, tagliava le immagini delle sue rappresentazioni.
In Figure, Riccardo Falcinelli racconta di come non solo la fotografia, ma anche le ferrovie, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento abbia influenzato la pittura, e l’arte in generale.
«Il treno trasforma il paesaggio in uno spettacolo: perché è il paesaggio ad apparire al treno e non viceversa, è cioè un elemento visuale al pari delle tappezzerie o del design dei sedili»[14].
Il treno non ha solo accorciato le distanze, ha anche cambiato il nostro sguardo sulle cose.
Ciro Esposito
(Accademia di Belle Arti di Catania)