Abstract
La radio, un medium ultracentenario, si trova oggi ad affrontare una profonda ridefinizione della sua identità nell’era digitale, dopo aver già superato rivoluzioni tecnologiche come l’avvento della televisione. Questo studio ripercorre l’evoluzione della “scatola sonora” dalla sua origine come mezzo unidirezionale e di contenuti, fino alla sua rinascita come strumento portatile e “tribale” negli anni Sessanta, consolidando caratteristiche come la diretta, la partecipazione e il ruolo di riferimento musicale.
L’analisi evidenzia come l’ecosistema digitale (social media, podcast, streaming musicale, intelligenza artificiale) abbia progressivamente cannibalizzato e potenziato queste funzioni, mettendo in crisi le specificità della radio. Di conseguenza, il medium si sta trasformando in una generica media company o entertainment company, producendo contenuti per un consumo frammentato e crossmediale. La conclusione è che la radio, più che difendere una vecchia identità, è destinata a integrarsi come fornitore di contenuti nel vasto e omogeneo panorama del consumo digitale.
Keywords
Rivoluzione Digitale – Digital Revolution
Evoluzione dei Media – Media Evolution
Intelligenza Artificiale – Artificial Intelligence
Identità Mediale – Media Identity
Radio – Radio
Come tutti gli altri media novecenteschi, anche la radio vive in un limbo tra un’epoca che si è chiusa definitivamente e un futuro reso incerto dalle trasformazioni digitali.
In oltre un secolo di vita, la “scatola sonora” ha già incontrato precedenti rivoluzioni tecnologiche non meno dirompenti, sebbene nell’ambito dell’analogico. Una di queste (la nascita della TV) sembrò, all’epoca, esiziale, altre ne hanno cambiato la natura e il rapporto con il pubblico.
In queste pagine ripercorreremo rapidamente i passaggi storici che hanno trasformato la radio e l’hanno definita nei suoi tratti essenziali, gli stessi con cui si è presentata alle soglie della rivoluzione digitale. In seguito analizzeremo il modo in cui il digitale ha già cambiato la radio e come potrebbe ancora cambiarla.
Un secolo (in) breve
Dagli anni Venti fino agli anni Sessanta, quella europea (a differenza della sorella statunitense) fu, oltre che pubblica e monopolistica, una radio di contenuti, anche quando, come in Germania e in Italia, fu soprattutto radio di propaganda. Seppur liberata dalla propaganda, anche la radio del dopoguerra rimase paternalistica, didascalica e unidirezionale[1].
Ingombrante protagonista e baricentro dei consumi domestici, la sua funzione principale era trasmettere contenuti, secondo un modello didattico-pedagogico riassunto dalla triade «educare, informare, intrattenere» teorizzata dal primo direttore della BBC, John Reith[2], e nobilitato un paio di decenni dopo dal modello matematico dell’informazione di Shannon e Weaver, con cui nel 1949 i due autori esaurivano[3] il processo comunicativo nel mero trasferimento di un messaggio a un destinatario, attraverso un canale e secondo un codice. Uno schema che sarebbe stato a lungo influente sui primi studi sulla comunicazione[4].
I messaggi/contenuti della prima radio sono radiodrammi, documentari, varietà, musica, notiziari e programmi di informazione[5]. Questo modello si perfezionerà nel dopoguerra e sarà dominante fino agli anni Sessanta-Settanta in Italia e Inghilterra, e fino agli anni Ottanta in Francia e Germania[6].
Sullo sfondo di questo tipo di fruizione mediatica, in Europa si diffonde la televisione. Sperimentata già negli anni Trenta, ma affermatasi solo negli anni Cinquanta, la prima televisione è di fatto una “radio con le immagini”. Due le conseguenze che ci interessano qui. La TV soppianta la radio (anche fisicamente nello spazio domestico), ma la logica del broadcasting resta la stessa: un trasferimento di contenuti da un’entità centralizzata a un pubblico passivo. Simmetricamente, la radio sembra avviata a morte lenta, destinata ad essere ricordata semplicemente come l’antenato della TV[7].
La televisione e l’esperienza più coinvolgente che essa offriva cambiarono il panorama e divennero in breve la principale fonte di intrattenimento domestico, mettendo fine all’epoca dei radiodrammi e delle grandi produzioni radiofoniche. Sarà un concorso di fattori a donare una seconda vita al mezzo e tra questi ancora una innovazione tecnologica, il transistor[8], nato negli anni Quaranta e diffuso nel decennio successivo. Il transistor sostituì le ingombranti valvole termoioniche e rese la radio più accessibile, portatile ed economica, democratizzando l’accesso al mezzo e contribuendo alla sua diffusione di massa.
La radio si portava in tasca e in macchina: fu per questo che andò diffondendosi pervasivamente nelle case, nei viaggi, sui luoghi di lavoro e presto, incrociando la motorizzazione di massa del boom economico, divenne immancabile accessorio degli automobilisti, ascoltata dunque in movimento e nel rumore, e non più nel silenzio concentrato delle case.
A fare il resto ci penseranno la crescita economica, la nascita dei “giovani”, l’arrivo del rock, l’impegno e la contestazione, i quali archiviarono il paradigma della radio dispensatrice di contenuti, mentre l’ascolto cambiava da domestico a individuale e, soprattutto, mobile, sullo sfondo della incipiente società dei consumi:
[…] migliori condizioni di vita facevano venir meno la condivisione familiare di abitudini, gusti, pratiche e consumi o la sincronizzazione obbligatoria dei tempi di vita “per necessità”[…][9]
L’energia generata dalle trasformazioni degli anni Sessanta trovò come mezzo di espressione la radio[10], non solo quella ascoltata, ma anche quella creata dal nulla e praticata, grazie anche alla semplicità e alla facile reperibilità dei primi rudimentali mezzi di trasmissione.
La prima scintilla scoccò nel 1964 in Inghilterra e in Olanda, con il fenomeno delle radio pirata come Radio Caroline e Radio Veronica[11], e poi divampò solo in Italia con quel singolare fenomeno che furono le radio libere.
Le radio pirata inglesi e olandesi aprirono il primo varco nel muro del monopolio trasmettendo da acque extraterritoriali e giovandosi dell’espansione dell’ascolto giovanile, ormai libero perché lontano dal controllo dei genitori. Un ascolto attratto soprattutto dalla musica come il rock e le altre sonorità (in larga parte proveniente dagli Usa) che cominciavano a circolare in Europa. L’ascolto di musica alla radio era un rito di cui il disc jockey era il sacerdote, nei panni di una sorta di influencer capace di orientare i gusti e decretare il successo di un disco:
Scompare, laddove resisteva, ogni figura di “annunciatore”, di fine dicitore di parole non sue; il disc jockey non è un presentatore di canzoni, ma sempre più una voce caratteristica e distinguibile, un personaggio, una star, ma anche un amico, un consigliere[12].
La radio dunque si adattò alle mutate condizioni, diventando una compagna quotidiana, dal linguaggio colloquiale, distante dal linguaggio “scritto” della radio di contenuti, il principale mezzo per le notizie veloci, i dibattiti, i programmi di approfondimento, ma anche l’intrattenimento leggero, e soprattutto la musica. In questo cambio di paradigma la radio diventa tribale, versatile, amichevole, aperta e partecipata, anche quando il collante non è la musica, ma l’impegno politico, che pure caratterizza gli anni Settanta e che segnerà la seconda anima delle radio libere italiane, assieme a quella più schiettamente musicale. Basti pensare che Radio Sicilia Libera di Danilo Dolci, Radio Alice di Bologna, ma anche Radio Aut in cui Peppino Impastato denunciava la mafia a Cinisi, erano tutte radio libere.
In questo crogiolo la radio assunse i caratteri che ne hanno consentito la sopravvivenza, ritagliandosi uno specifico spazio e una distinta funzione nel sistema mediatico, fino all’avvento del digitale.
Seppur con una progressiva professionalizzazione, il settore rimase nel caos fino al 1990, quando la legge Mammì mise ordine nell’etere e permise la nascita dei network privati nazionali.
Già nel corso degli anni Novanta, comincia la fase di spersonalizzazione di un certo tipo di radio musicale. Alcune emittenti vengono incorporate in grandi gruppi editoriali e si registrano le prime vittime. Le prime radio libere furono il trionfo della soggettività, da quella più sgangherata a quella più creativa, che si manifestava semplicemente nel parlare al microfono secondo il proprio gusto e nello scegliere i dischi da mandare in onda. Con l’industrializzazione del settore, musica e parole smettono di essere frutto della singolare e indiscutibile scelta soggettiva del DJ e diventano parte di un piano editoriale, di una scelta identitaria che limita e circoscrive quanto trasmesso.
Si assesta un sistema radiofonico fatto di due categorie: la radio di programmi e la radio di flusso.
La prima, divenuta nel tempo minoritaria e rappresentata in Italia da Rai Radio1, Rai Radio3 e Radio24, organizza la programmazione attraverso un mosaico coerente di vari programmi, però nettamente distinti tra loro per contenuto, stile e personalità dei conduttori. La radio di flusso, ispirata a modelli statunitensi, maggioritaria e incarnata da emittenti come RDS e RTL 102.5, ha invece un’unica identità musicale (solitamente concentrata sulle hit del momento), i programmi sono sostanzialmente indistinguibili e ogni ora segue lo stesso schema prestabilito (il clock) in cui vengono dosati, a seconda delle scelte editoriali, la musica coerente con il format e un parlato allegro, ma senza una spiccata caratterizzazione.
L’ascoltatore della radio di flusso sa che troverà a qualunque ora, sostanzialmente lo stesso programma, lo stesso intrattenimento, la stessa musica e la stessa atmosfera.
Si noti che la radio di flusso aveva già incorporato nel suo modello l’ascolto frammentario e in un certo senso atemporale. A differenza della radio di programmi, in cui l’ascoltatore ha come una sorta di appuntamento fisso con una determinata trasmissione (a una certa ora e su un certo canale), la radio di flusso offre un consumo indifferente all’orario, prevedibile e sostanzialmente omogeneo nei suoi contenuti, appunto un flusso che permette l’ingresso all’ascolto più facilmente che l’ingresso in medias res in una trasmissione di una radio di programmi. Bonini associa questo meccanismo alla serialità:
Nella format radio (radio di flusso) la serialità tocca non i singoli programmi ma l’intero palinsesto, strutturato sul clock (forma ciclica e ripetitiva) e su software di automazione della programmazione[13].
Il simbolo di questo passaggio fu Selector, un assaggio di intelligenza artificiale che contribuisce al successo delle radio di format: un software capace di generare playlist coerenti con i criteri scelti in base al target e non più affidate alla scelta idiosincratica del disc jockey, che infatti viene gradualmente soppiantato dalla figura dello speaker, intrattenitore con generiche doti di simpatia e spigliatezza, ma non più autorizzato a selezionare musica secondo il proprio gusto.
In ogni caso, alla fine degli anni Novanta, pur accusando una certa tendenza all’omologazione dell’offerta, la radio conserva ancora i caratteri che ne hanno garantito la specificità e con i quali va incontro all’arrivo di internet. Proviamo a isolarli.
La radio tribù
Se, prima delle radio libere, ascoltare la radio significava fruire di documentari, radiodrammi o sceneggiati, nel nuovo clima significa innanzitutto appartenere a una piccola tribù, con la quale si condividono valori, gusti, interessi, linguaggio, parole d’ordine. Quando la condivisione non riguarda la dimensione più apertamente politica, in cui è ovvio l’effetto di appartenenza, essa non è meno intensa, dal momento che solitamente poggia su due fattori emotivi che maggiormente rafforzano i legami sociali: l’umorismo e la musica.
Menduni a questo proposito ha giustamente parlato di una funzione identitaria della radio:
In un mondo fatto di nicchie e di tribù molti di noi chiedono alla radio di aiutarli a riconoscersi nell’identità che hanno scelto e a specchiarsi in essa. Di coltivare il loro particolare mix di appartenenza e individuazione fornendo solo il senso di quella determinata identità, che può essere una scelta totale, come la scelta di fede, ma anche l’investimento di una parte della nostra persona o anche di ciò che stabiliamo che sia – come avviene nelle comunità virtuali della rete – senza coinvolgere tutto il resto. È una comunità di adesione e di riconoscimento che può essere anche temporanea, perfino della durata di una sola sessione di ascolto; una comunità senza membership e senza pagamento di quote, tessere e bollini, senza un momento vero e proprio di accettazione del nuovo arrivato, senza attività sociale e tenui riti di ingresso se non l’atto unilaterale di accendere la radio; una comunità largamente immaginata, ma non per questo meno reale: perché aperta, inclusiva, senza barriere[14].
Nel frattempo, però, questo meccanismo di identificazione ha smesso di essere esclusiva della radio. È in realtà un’esperienza che ritroviamo con gradi diversi di intensità, per esempio, nei gruppi Facebook, nelle chat Telegram, negli schieramenti su X, nella condivisione di una playlist su Spotify e in tutte le infinite forme di aggregazione (blanda o intensa) che il digitale consente.
Partecipazione e connessione
Non sono poche le analogie tra la nascita delle radio private e la parabola di internet. Potremmo definire le radio libere il primo caso di user generated content[15], perché per la prima volta il pubblico si impossessava di uno strumento di comunicazione fino ad allora riservato ad un ristretto numero di protagonisti.
La democratizzazione della radio però non dipese solo dal fatto che si moltiplicava il numero di quelli che la “facevano”, ma anche dal protagonismo del pubblico che per la prima volta prendeva la parola. Lo testimoniano l’apertura alle prime telefonate in RAI nel 1969, il documentario di Andrea Camilleri Outis Topos[16] del 1974, in cui la voce protagonista è quella della gente comune, e poi le esperienze di microfono aperto e telefonate in diretta nelle centinaia di radio libere locali. Non era mai accaduto prima ed era solo l’inizio di un fenomeno che solo oggi vediamo compiutamente realizzato sui social media.
A questo proposito, Menduni parla di funzioni partecipativa e connettiva della radio, dal momento che essa si offre da un lato come finestra sempre aperta sul mondo e dall’altro come arena di discussione a cui si può partecipare senza dover vantare alcun titolo. «Una connessione soft ma costante e accessibile in ogni momento con i loro simili e con la società»[17].
Anche da questo punto di vista, dobbiamo registrare il fatto che i vecchi media perdono uno dei loro privilegi. Con gli strumenti digitali, anche le funzioni connettiva e partecipativa hanno smesso di essere quasi esclusiva della radio o della TV. I social forse ne sono la versione più vistosa, ma non l’unica.
La tempestività nell’informazione e l’approfondimento
Approfittando della sua leggerezza e della facilità di trasmissione, la radio è sempre stata lo strumento più adatto al racconto in diretta (radiocronaca), alle notizie dell’ultim’ora (breaking news) e all’approfondimento (il talk). Le prime due sono sinonimo di tempestività, da sempre un valore chiave dell’informazione radiofonica[18]. Riguardo all’approfondimento vale quanto dice Menduni:
Non può essere sottovalutata, inoltre, la sua capacità di approfondire i temi del giorno con un apparato redazionale quanto mai ridotto e una logistica molto semplice; ad esempio in un dibattito radiofonico, per discutere un qualunque tema politico o sociale, l’uso del telefono permette di avere in collegamento personaggi di grande autorevolezza che non avrebbero mai la possibilità o il tempo di recarsi in studio, e contemporaneamente dialogare con il pubblico[19].
È di tutta evidenza, tuttavia, che anche questo riconosciuto punto di forza sia stato largamente messo in questione dal digitale. Il vecchio adagio per cui «la radio dà le notizie, la tv le fa vedere e il giornale le commenta» non è più vero. Accade sempre più spesso che a dare per primi le notizie siano i social o il web, tanto più che chiunque, in qualunque parte del mondo, può dare una notizia aprendo uno streaming video o anche solo audio, oppure anche solo con un post su qualunque piattaforma. Quanto allo spazio dei talk show, è persino superfluo notare come i social media siano di fatto un talk permanente.
La diretta
Gli aspetti che abbiamo appena indicato sono impensabili senza l’ingrediente fondamentale della nuova radio che nasce con la fine del Monopolio: la diretta, il principale tratto che distingue oggi la radio dal podcast, mentre ieri la distingueva dalla tv.
Nel confronto continuo fra i due mezzi, radio e TV, assume rilievo la tendenza del primo a ritornare a un uso più ampio delle trasmissioni “dal vivo”: se la diretta era comunque utilizzata per i notiziari e per i servizi giornalistici, dal 1945 la diffusione degli strumenti di registrazione aveva consentito una migliore qualità dei programmi e nuove possibilità di linguaggio[20].
Questo aspetto fu determinante per consegnare alla radio un rapporto diverso con il pubblico. Come scrive Menduni:
Sentire la radio è qualcosa di molto diverso da altre esperienze di fruizione mediale, come la lettura di un libro o di un giornale […]. Queste esperienze ci danno l’impressione di una indipendenza dal tempo, che possiamo gestire secondo i nostri ritmi; la radio invece è sempre adesso, nel momento in cui la si ascolta; non si può rileggere: quello che non abbiamo sentito bene o che ci è sfuggito non è recuperabile[21].
Non è un caso tuttavia che si paragoni la fruizione della radio alla lettura di un libro o di un quotidiano, perché non appena allarghiamo lo sguardo ai media digitali e agli smartphone che portiamo in tasca, notiamo che anche la diretta è tutt’altro che esclusiva della radio.
Piattaforme di streaming musicale
Da sempre e in maniera più marcata dagli anni Settanta, la radio è sinonimo di musica, essendo stata il principale distributore di musica gratuita[22].
La musica istantanea, dopo il 1955, è stata quella dell’autoradio, del walkman e del transistor, della mobilità: caratteristiche precluse ad altri media più pesanti, alfabetici-gutenberghiani o audiovisivi o tutt’e due le cose insieme: stampa, cinema, televisione[23].
Lo streaming musicale, da un lato ha svalutato il bene “musica”, divenuto infinitamente disponibile, dall’altro ha già sottratto alla radio il ruolo di selezionatore e propagatore di musica.
Naturalmente, la radio continua a selezionare i brani da mandare in onda, il punto è che ora è solo una fonte tra le tante, e nemmeno la più fornita.
I generi classici
Sebbene sia minoritaria, la radio di contenuti (documentari, fiction, reportage, inchieste) ha continuato a sopravvivere soprattutto grazie alla produzione RAI.
In questa prospettiva, il suo principale concorrente è ovviamente il podcast, perfetto per fruire contenuti audio, ma con il vantaggio dell’ascolto differito. Per questa ragione, esso potrebbe assorbire del tutto i generi della radio di programmi ai quali la diretta non aggiunge nulla.
Radio e digitale oggi
Per capire quanto la radio sia già cambiata basterebbe elencare gli strumenti attraverso cui essa è ascoltata: radio fm, tv, app dell’emittente o app dedicate, sito web dell’emittente, assistenti vocali e smart speaker come Alexa e Google Home, autoradio digitale, podcast (su web o su app), social media.
Le trasformazioni digitali hanno risposto a nuove abitudini di consumo, allo stesso tempo alimentandole. Il fattore chiave di questa evoluzione è la centralità assunta dal telefono portatile, il metamedium[24] che ha inghiottito tutti gli altri media. Oltre a questo cambiamento epocale, nella prospettiva della radio tre ci sembrano i fatti salienti.
Il ruolo dei social, divenuti l’ambiente privilegiato entro cui un numero crescente di utenti consuma contenuti audiovisivi di varia origine e natura. La conseguenza di questo, ed è il nostro secondo punto, la crescita del consumo frammentario, rivolto sempre più a video o testi brevi, brandelli di canzoni o di eventi, porzioni di interviste e così via. Infine, il fatto che l’illimitata disponibilità di contenuti e l’altrettanto illimitata capacità di archiviazione inducano al consumo asincrono, differito, non in diretta.
Negli ultimi venticinque anni, il digitale ha già cambiato la radio, ma per gradi, con una rivoluzione che minacciava di essere dirompente e immediatamente catastrofica e invece si sta rivelando lenta e carsica, inizialmente innocua e persino foriera di opportunità, ma potenzialmente corrosiva. Vediamone gli aspetti principali.
Digitalizzazione e Streaming – La trasmissione via FM/AM è destinata a scomparire, lasciando spazio alla radio digitale (DAB+) e allo streaming online, con qualità audio superiore e una copertura più ampia. Apparentemente un cambiamento positivo, che tuttavia, superando i limiti dell’etere, mette a disposizione uno spazio di trasmissione più ampio, anche ad operatori diversi da quelli esistenti. Se consideriamo la possibilità di ascoltare facilmente in auto anche le web radio, questo cambiamento di canali di trasmissione potrebbe essere deleterio per i grandi gruppi radiofonici, poiché potrebbe polverizzare l’ascolto e quindi il mercato, distruggendo le già fragili economie di scala che tengono in piedi il sistema attuale.
Radiovisione[25] – Ad investire inizialmente sullo sfruttamento dei canali televisivi, resisi disponibili con il digitale terrestre e prima ancora con la trasmissione satellitare, è stata in Italia RTL 102.5, ma ormai il suo modello è diventato lo standard adottato da quasi tutte le altre emittenti: riproduzione televisiva del programma radiofonico, utilizzando come immagini di copertura i videoclip delle canzoni e le riprese dello studio radiofonico. La “radio in TV” non è solo uno dei tanti canali di diffusione del mezzo, paragonabile ad app o allo smartphone, poichè essa è per sua natura l’antitesi della radio. Il che induce a chiedersi se quella che vediamo in TV sia ancora radio. Forse sì, quel che è certo è che ha allargato il bacino di ascolto. Non solo, la radiovisione è anche la principale risorsa che ha regalato alle emittenti radiofoniche una visibilità sulle piattaforme social, inimmaginabile se si disponesse solo di contenuti audio.
E tuttavia si tratta pur sempre di un rapporto incestuoso, i cui risultati (mostruosi o meno) saranno valutabili solo nel tempo, anche se già è uno dei tanti indizi di snaturamento della radio.
Podcast[note id=”26″] e On-Demand – L’ascolto radiofonico non è più vincolato alla diretta: con i podcast e le repliche on-demand, gli utenti possono scegliere quando e cosa ascoltare, avvicinando la radio alle logiche del contenuto personalizzato. Per la radio, il podcast è un parente ambiguo. Da un lato, con l’ascolto asincrono, permette la fruizione anche al di fuori degli orari di messa in onda, il podcast come recupero di una diretta perduta.
Vantaggio tuttavia riservato – come abbiamo già visto – solo ad alcuni tipi di programmi, mentre molti altri e l’intera radio di flusso non se ne giovano, avendo fatto della diretta un tratto essenziale della propria identità e del patto con gli ascoltatori.
Se invece consideriamo il podcast come produzione originale al di fuori della radio, esso è obiettivamente un diretto concorrente, specie della radio di programmi, e di quei programmi non fortificati dalla diretta. Come accennato, il podcast potrebbe finire per incorporare definitivamente tutta le radio di contenuti, per altro con un vantaggio aggiuntivo, sempre ribadito dai podcaster: disporre di uno spazio di libertà, autogestito, un’occasione per riconquistare una autorialità indipendente.
Streaming musicale – Se il concorrente più diretto della radio di programmi è il podcast, per la radio di flusso il pericolo arriva dai cambiamenti in ambito di distribuzione musicale. La radio anteriore al digitale ha la sua ragion d’essere in un mondo in cui il bene “musica” è relativamente scarso e difficilmente attingibile al grande pubblico. In questo senso, la radio è stata un gatekeeper, si proponeva come agente semplificatore e facilitatore, intermediario tra un patrimonio musicale non immediatamente disponibile per il singolo e un vasto pubblico.
Quello di oggi tra radio e musica non è evidentemente un divorzio, ma non è più un amore esclusivo. La musica è ormai un bene illimitatamente disponibile e sostanzialmente gratuito. Tuttavia, non bisogna farsi tentare da frettolose conclusioni. Come abbiamo ampiamente argomentato, un’emittente, anche quando è di flusso, non è riducibile alla sua playlist, ma è un piccolo universo di senso. E questo spiega perché Spotify non ha ancora sostituito la radio. Ciò non toglie che la perdita del monopolio della musica pone seri problemi di identità alle radio musicali.
Social Media – Sin da subito, le piattaforme social hanno permesso alle radio di coinvolgere maggiormente il pubblico, con sondaggi, commenti e richieste musicali, creando un’esperienza più partecipativanote id=”27″]. Se fosse solo così, si tratterebbe del potenziamento di una funzione della radio già esistente, ma il rapporto tra social e radio è più complicato, a causa di quella cannibalizzazione a cui abbiamo accennato, avvenuta, per così dire, “nello smartphone”, ed è quella che ha eletto i social media ad ambiente preferito nel quale fruiamo (seppur in maniera prevalentemente frammentaria) gli altri media.
Il digitale però ha completamente infranto questo paradigma novecentesco, determinando la crossmedialità, e quindi l’ibridazione e la contaminazione fra linguaggi alfabetici-gutenberghiani, oralità, musica, immagini fisse e in movimento. Ibridazione e contaminazione diventano un brodo di coltura del Ventunesimo secolo, e in qualche modo una condizione obbligatoria per la sopravvivenza in un ambiente mediale di tipo nuovo e con grande protagonismo degli utentinote id=”28″].
Allo stesso tempo, però, i social media sono anche il diretto concorrente di tutti gli altri media (radio compresa) nell’ambito dell’”economia dell’attenzione”, vale a dire in quella gara per essere il medium su cui gli utenti trascorrono più tempo (sottraendolo agli altri)[29].
Da questo punto di vista, i social media sono l’ingordo concorrente di tutti i media, non solo per ciò che di specifico hanno da offrire, ma soprattutto per l’opera di rimediazione[30] che svolgono, essendo divenuti il canale prevalente attraverso cui gli utenti incontrano articoli di giornale, frammenti di TV o di cinema, brani di radio o più spesso di radiovisione.
Accade quindi che i vecchi media per accrescere la loro visibilità e sperare in un ritorno di ascoltatori (lettori, spettatori) alimentino i social media, che nel frattempo (grazie ai loro contenuti) divengono sempre più il principale luogo in cui la gran parte degli utenti consuma informazione e intrattenimento, e in generale il suo tempo.
Una spirale potenzialmente deleteria, che ha anche un altro effetto collaterale. Non essendo raro fruire di contenuti radiofonici sui social (il brano di un’intervista ad un cantante su Instagram, uno scambio di battute tra conduttori su Tik Tok, una news diffusa su X, il videoclip di una canzone visto sul televisore di un bar), le emittenti chiedono oggi che le rilevazioni tengano conto della cosiddetta total audience, e quindi anche di questo ascolto eterodosso.
A parte le complicazioni connesse al computo (un video di gattini di enorme successo postato sui social di un’emittente radiofonica vale come “ascolto della radio”?), il punto che qui ci interessa è che in questo modo la radio diventa qualcos’altro, come vedremo nelle conclusioni.
Intelligenza artificiale – Anche per la radio (come per tutto, verrebbe da dire), l’AI è potenzialmente rivoluzionaria e deleteria al tempo stesso. Alcuni gruppi editoriali si stanno già preparando a uno scenario fatto di automazione nella produzione e programmazione, conduzione affidata ad “AI DJ”, algoritmi che selezionano e mixano musica in base alle preferenze degli ascoltatori, palinsesti dinamici e generazione automatica di contenuti, per esempio attraverso sistemi AI che creano e leggono notizie radiofoniche, o inscenano dialoghi, o raccontano brevi storie, o danno informazioni musicali.
E ancora, esistono già algoritmi che analizzano i gusti degli utenti e suggeriscono contenuti specifici, playlist generate in tempo reale in base alle emozioni e alle abitudini di ascolto, simulano interazione con gli utenti attraverso chatbot e assistenti vocali, fino a sistemi che permettono agli utenti di saltare segmenti di programmazione o adattare il contenuto in tempo reale, a cui aggiungere notiziari automatici, traduzione istantanea dei contenuti parlati, fino alla completa gestione e produzione di un’emittente.
Come si noterà, in questo elenco manca del tutto il fattore umano. In un mondo siffatto, parlare di spersonalizzazione della produzione sarebbe persino riduttivo, sebbene potrebbe generare meccanismi di nostalgia per un’autenticità perduta, alla maniera del disco in vinile.
Se l’AI è apprendimento automatico, riconoscimento vocale e personalizzazione algoritmica, vuol dire che la sua introduzione estesa avrebbe un potenziale distruttivo capace di stravolgere definitivamente la produzione, la distribuzione e il consumo dei contenuti radiofonici, con conseguenze per ora imprevedibili su editori, broadcaster e ascoltatori.
Questi ultimi dovrebbero ovviamente fare i conti con una perdita di autenticità e forse di creatività, con tutti i rischi connessi a una sovrabbondanza dell’offerta, per non dire del possibile annientamento dell’occupazione nel settore (ma questo, in realtà, vale anche per gli uffici comunali o per gli studi legali).
Conclusioni
Come abbiamo visto, la radio è insidiata da molti concorrenti che si sono variamente appropriati dei suoi punti di forza, tra i quali vale la pena aggiungere l’umorismo, la satira e la dissacrazione[31], di cui ormai le diverse piattaforme digitali sono una miniera inesauribile.
Di fronte a queste sfide, le emittenti si sono comportate finora come tutti: hanno un patrimonio di contenuti e cercano di diffonderlo su tutte le piattaforme e i canali possibili (il cosiddetto simulcasting). Che questi contenuti vengano fruiti in macchina attraverso la vecchia autoradio, in casa attraverso il televisore, in treno attraverso la app, e in sala d’attesa attraverso frammenti pubblicati sulle pagine social, poco importa. Ma il simulcasting non è una risposta sufficiente, tanto che, in aggiunta, le emittenti cercano visibilità sui social media anche con contenuti non strettamente radiofonici (video di siparietti tra speaker nel fuori onda, di dietro le quinte di concerti, brevi monologhi di giornalisti, post testuali di informazione e così via).
Questa scelta ha già largamente trasformato (anche) le radio in generiche media company o come le definisce Menduni[32] in entertainment company, la cui missione è sfamare ogni giorno la vorace fame di video, musica e notizie, di un pubblico che se ne nutre attraverso una pletora di canali.
Ciascun operatore del medium sonoro deve diventare una media company, o meglio una entertainment company, deve adeguarsi senza perdersi e senza negare se stesso. […] La trasformazione dei quotidiani in venditori di notizie on line, la pay-per-view televisiva, la distribuzione digitale del cinema sono altrettanti esempi di come i media novecenteschi cercano, abbastanza efficacemente ma in affanno, di presidiare pezzi pregiati delle nuove catene del valore, delle nuove filiere crossmediali.
Le conseguenze estreme di questa tendenza relegherebbero il consumo della vecchia radio a quelle circostanze in cui non possiamo avere distrazioni visive o abbiamo le mani impegnate (guidare, lavorare, cucinare). Ma pure questa distinzione è ormai priva di senso, così come, per le stesse ragioni, è illusorio credere che il rilancio della radio passi da soluzioni come speaker più carismatici o format più originali.
Il punto non è che la radio sia destinata a perdere ascoltatori, come la TV gli spettatori, e quindi ci si debba chiedere come attrarne di nuovi. Il fatto è che sono cambiate le pratiche di consumo mediatiche, in cui la dimensione digitale cancella tutte le vecchie differenze e sembra accorpare tutti i media novecenteschi in uno dei tanti capitoli del consumo digitale.
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Giuseppe Morello
(Giuseppe Morello è Professore a contratto di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università di Torino. Ha tenuto corsi di Semiotica e Filosofia del Linguaggio all’Università di Modena e Reggio Emilia. Giornalista professionista, ha inoltre tenuto lezioni di semiotica in diverse università italiane e insegnato Comunicazione e Giornalismo allo IULM di Milano. È coautore del volume La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di Tiziano Bonini, Roma 2013.)