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La rappresentazione del corpo vale più della realtà del corpo?

IO01 - n.2

Di Massimo Tantardini 17/03/2022

«E allora il corpo, Il corpo! il corpo[1]».

Il corpo è il grande dimenticato ed è anche quell’urgenza culturale che si trasforma percettivamente sempre più in un feticcio, similmente a quanto accade per gli oggetti iconici nel design del secolo scorso. È sottoposto allo stimolo del peso specifico dell’altro e degli altri. Questa ottica rappresenta l’inverso della relazione, è una sorta di sintesi fra una forma astorica di narcisismo e uno psicologismo collettivo anti-terapeutico.

Il corpo inteso come espressione dell’individualità individualistica e del formalismo fiscale arma l’alibi del bisogno di burocrazia, favorisce il sorgere delle noiose circostanze tipiche di chi usa il prossimo per esercitare un potere che è sintomatico del personale vuoto di sapere. Si traduce una forma di ignoranza che evidenzia la mancanza di un saper pensare e che rivela l’assenza totale del saper fare (quest’ultimo frequentemente compensato con una ridicola versione personale del performare). Fortunatamente vi è una netta distinzione fra i performer e i performatori.

È qui che la pratica della performance diventa una sorta di affaire che conduce uomini di scena, poeti, artisti visuali, scrittori a muoversi dinamicamente nel tentativo di tradurre una delle nozioni maggiormente complesse e articolate che riguardano la relazione più misteriosa e appagante della vicenda umana post-industriale, il legame fra corporeità e palinsesti urbani.

Nella quotidiana lotta fra lo schermo e il corpo – dove quest’ultimo soccombe numericamente, per quantità – si eviscera il rapporto con lo spazio che risulta sempre meno definibile alla luce dei confini fra realtà e rappresentazione, sguardi e mondo, memoria e leggenda.

La performance ci appare come un glitch dell’Occidente che nella logica della relazione fra vuoto reale e zona virtuale – e soprattutto ormai fra memoria e digitale – non riesce più a fare “click”.

È dalla ricerca di una superficie di terreno come forma simbolica che si materializza questo numero di IO01 nel desiderio di scrollarsi quello sguardo farraginoso, determinato dal controllo fermo e ostinato delle macchine e dei disumani, per puntare la visione oltre le “burocratiche posture” tipiche di una politica che raramente riesce ad essere cultura e che costringe le persone a performare anche durante lo spazio-tempo dell’intimità.

 

M. N. Rotelli e A. Merini, Bunker poetico, Quarantanovesima Biennale d'Arte di Venezia, Collezione privata (Courtesy of Massimo Tantardini).
M. N. Rotelli e A. Merini, Bunker poetico, Quarantanovesima Biennale d’Arte di Venezia, Collezione privata (Courtesy of Massimo Tantardini).
1)

M. Tantardini, fak monologo # 6 _ Massimo Tantardini, 2010 disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=ydkzX-0c2Kc&t=55s (Consultato nel mese di dicembre del 2021).