Indietro

Luddismo informatico e nuovi rapporti uomo-macchina

Le iniziali modalità di resistenza alla diffusione del Pc

Di Marcello Zane (Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia) 27/08/2023

La storia dei Personal computer e della loro diffusione nel nostro Paese appare assai complessa. Si dipana nell’intrecciarsi di interessi commerciali, cambiamenti sociali, innovazioni tecniche di breve periodo. Non mancano significative resistenze, ad iniziare da quelle espresse dal mondo dei programmatori e degli addetti ai grandi centri di calcolo, alle prese con la rapida perdita del proprio status di “custodi delle macchine”, travolti dalla prepotenza della pubblicità e dell’informazione scientifica pesantemente condizionata dalle case produttrici e dai loro orientamenti di marketing.

Arriva il Pc

La presenza dei primi Personal – in realtà sino al 1985 chiamati computer da tavolo o home -si avvia con una certa lentezza in Italia, come mostra la tabella seguente, ricordando che nel 1980 in Europa risultavano presenti circa 108.000 Pc:

Parco globale Pc installato per i principali distributori[1]

Costruttore 1978 1979   1980
Pet 400 1.400 3.500
Apple 150   600 2.700
Olivetti 1.500
Ibm 1.200
Hp   900
TRS 100   400   800
T.Adler   600
Altos   100   550

 

L’ingresso dei Pc nella quotidianità lavorativa, oltre a stimolare fenomeni di competitività e miglioramento dei servizi, mette in gioco fattori non esclusivamente di carattere tecnologico. Le imprese e le istituzioni, infatti, devono fare i conti anche con la capacità di utilizzazione di Personal sempre più sofisticati da parte del personale (con i costi di formazione continua), con il turnover di nuove macchine rese sempre più rapidamente obsolete dalla tecnologia avanzante, e con l’estensione del loro utilizzo in ogni ambito lavorativo, scolastico e professionale.

Una velocità di mutamento che conosce due direzioni. Da un lato la disponibilità di nuovi Pc a prezzi sempre più bassi e con prestazioni decisamente superiori, in cui il ritmo di obsolescenza non è dettato semplicemente dall’hardware, ma dal suo rapporto con il software utilizzabile; dall’altro, la velocità di adattamento degli utilizzatori e, soprattutto, il rapido mutare delle esigenze di elaborazione, memorizzazione e comunicazione, attraverso modalità sempre più sofisticate e in tempi sempre più ridotti, che richiedono sempre nuove, accelerate competenze[2]. La presenza del Pc non è dunque valutabile in termini quantitativi e statistici rispetto alla produttività, ma quantificabile in termini intangibili, fra maggiore precisione e rapidità, meno azioni ripetitive: si crea, anche grazie ai Pc, la necessità di saper misurare la nuova economia e la produttività non più con gli strumenti sino ad allora utilizzati e figli di una precedente rivoluzione industriale, ma con il nuovo metro dettato dall’informatica[3].

Timori immaginati, resistenze organizzate

Con le prime previsioni di vendita di migliaia di piccoli e personal in pochi mesi, dagli ambienti dell’informatica professionale e dai potenti centri di calcolo giungono con insistenza i segnali di una sempre più netta opposizione – durerà alcuni anni, come vedremo più avanti -, sostenuta dal timore che la rapida diffusione dei Pc sulle scrivanie di tutti gli uffici avrebbe finito per causare la perdita di una elevata percentuale di posti di lavoro.

Un tema, quest’ultimo, cui l’opinione pubblica italiana è particolarmente sensibile. La questione della salvaguardia del livello occupazionale trova quindi larga eco nei media, mentre la stampa specializzata intravede nella diffusione dei personal l’elemento chiave per il miglioramento della qualità del lavoro. Così, lo slogan della primavera 1980 legato alla diffusione del Pc, L’inferno esiste solo per chi ne ha paura, cerca di quietare quelle preoccupazioni:

Che il personal computer possa comprimere l’occupazione, lo sento dire per la prima volta, mi lascia interdetto, anzi, pur non essendo un sociologo, lo smentisco decisamente. Se esaminiamo una per una tutte le possibili applicazioni del personal computer, scopriremo che non toglie lavoro, ma molto più utilmente del lavoro aumenta il livello qualitativo e/o quello intellettuale: pensate all’esercito di copisti ora scomparsi, pensate alle fughe sotto forma di fotocopia di notizie riservate. Eppure per lanciare un grido di allarme contro il pericolo della fotocopiatrice non si è mosso nessuno. [4]

Con grande chiarezza il professor Giuseppe Attardi, docente presso il neonato Corso di laurea in Scienze dell’informazione preso l’Università degli Studi di Pisa, pone viceversa la questione legata ai timori che la rivoluzione portata dall’arrivo «dell’elaboratore personale» avrebbe creato nel consolidato e chiuso mondo dell’informatica italiana. Appare evidente come già in quelle stagioni «il fenomeno degli elaboratori personali turba e sconvolge l’ambiente dell’informatica professionale. Senso di insicurezza e perplessità provocati da questo fenomeno sono palesati dal numero di articoli e di studi pubblicati».

Le ragioni sono esplicitate con grande lucidità, da una voce che evidentemente, pur provenendo proprio dalla schiera dei maggiori esperti informatici della generazione dei main frame[5], grazie allo sguardo internazionale e alla contiguità con il mondo universitario e della ricerca, sa cogliere con esattezza il difficile momento provocato da questa rapida transizione:

Il fatto è che la maggior parte degli informatici si è abituata a dover fronteggiare una vasta serie di problemi, per ciascuno dei quali si sono formati specialisti con competenze specifiche. L’idea nuova dell’elaboratore personale fa sparire molti di questi problemi. Ad esempio ci si era abituati a dover trattare con complicati sistemi operativi, alla faticosa programmazione con linguaggi assembler o attraverso pesanti catene di compilazione, ai lunghi tempi di attesa, a limitate possibilità di interazione ed alla mediazione di onnipotenti operatori per l’intervento sulle unità del sistema. Nel nuovo mondo il sistema operativo sparisce, con tutti i suoi problemi di gestione delle risorse e di protezione; si programma unicamente in linguaggio ad alto livello, senza l’intervento di compilatori; si interagisce in maniera immediata ed efficace su video grafici a colori o ad alta risoluzione. [6]

Qualche perplessità giunge anche dal fronte della moralizzazione dei consumi, dopo le battute d’arresto all’economia nazionale inferte dal perdurare della congiuntura. Quando la rivista m&p computer promuove il lancio del suo primo numero, inserendovi una cartolina volta a proporre una sorta di indagine fra i suoi lettori chiedendo opinioni e pareri relativamente alle possibilità di diffusione dei Pc, non può non informare circa «qualche dissenso» che si aggiunge «alle scontate proteste degli operatori (importatori, distributori, negozianti, softwarehouse etc.) vecchio stampo»[7].

Lavorare meglio o restare senza lavoro

Il contributo offerto dalle imprese a sempre più elevata informatizzazione viene giudicato in modo ambivalente, facendole comunque ritenere generatrici di ricchezza anche se a discapito del modo di intendere il lavoro e la sua dignità[8]. «Si può ragionevolmente affermare», si scriveva nel 1985, ovvero dopo che ormai i Pc non erano una novità, che «le nuove tecnologie determineranno effetti positivi sull’occupazione qualificata e negativi su quella meno qualificata: i posti di lavoro creati richiederanno una formazione più approfondita e conoscenze tecniche superiori a quelle richieste dai posti distrutti».[9]

Una visione più radicale è condivisa da numerosi analisti e sociologi. Aldo Visalberghi, nel rammentare la riduzione dei posti di lavoro e una rapida obsolescenza delle professionalità di vecchio tipo che già i Pc stavano portando, ricorda come la rivoluzione dei microprocessori costituisce una specie di rivoluzione sociale alla rovescia o meglio di tipo paradossale: da un lato libera l’umanità del lavoro frustrante, dall’altro defrauda una sua frazione rilevante dal lavoro che era abituata a fare e ciò, si badi, senza offrire nell’immediato e forse neppure a medio termine nessun altra possibilità di lavoro alternativo. Viene così a crearsi una grossa sacca di disoccupazione non già frizionale e neppure congiunturale, ma decisamente strutturale, strutturale almeno rispetto ad un tipo di società in rapida evoluzione tecnologica.[10]

Il discorso dura nel tempo e porterebbe lontano, ma non poche indagini[11] concordano sui timori di un futuro di disoccupazione generalizzato a livello operaio e, quel che più preoccupa, a livello impiegatizio. L’impatto dell’informatica in Italia previsto nel corso degli anni Ottanta[12] traccia un preoccupante bilancio occupazionale per il decennio 1980-1990, concludendo con un’ipotesi di saldo fortemente negativo.[13]

Poiché la microelettronica, ed i Pc in particolare, sostituiscono anche il lavoro intellettuale, questo significa – nelle discussioni di molti esperti – la fine del lavoro tout court. Da ciò vengono dedotte gravi conseguenze di carattere economico e sociale, che si contrappongono sempre più apertamente alle simmetriche speranze e previsioni di una felice e misurata liberazione dell’uomo dalla maledizione biblica della fatica. Resta evidente il fatto che, con la presenza del Pc, assumono andamento negativo la percezione delle dimensioni dell’autonomia e dell’iniziativa[14]. Le ragioni di una resistenza alla diffusione dei Pc vengono fatte risalire a questo ordine di considerazioni: «a) al fatto che in queste aziende le nuove tecnologie impattano sui ruoli professionali mediamente più elevati; b) perché c’è sicuramente una maggiore standardizzazione di procedure che prima avevano maggiori gradi di discrezionalità; c) infine perché, in alcuni casi, le figure interessate sono state, si potrebbe dire, spodestate da ruoli di potere precedentemente esercitati».[15]

Luddismo mascherato

Entro questo scenario e nelle timorose ipotesi sul futuro si inserisce un altro tipo di resistenza ai Pc negli uffici e nelle imprese, che dura lo spazio di poche stagioni ma è pure fonte di qualche ritardo nell’acquisto delle nuove macchine. Probabilmente nessuna azienda lo aveva preventivamente messo in bilancio, ma il «luddismo mascherato» degli impiegati che hanno a che fare con i personal rappresenta sicuramente quella che viene definita “una forte voce passiva” in tutte le aziende che hanno istituito strutture di office automation senza coinvolgere seriamente gli impiegati in questo processo. Ma cos’è il luddismo mascherato?

 Riconoscerlo è semplice: quando un impiegato entra nell’ufficio del suo dirigente o nel cento di calcolo con un mano un tabulato e dice con un ampio sorriso “visto! il computer ha sbagliato!”, si tratta di luddismo mascherato, e quando una filiale denuncia un guasto al suo terminale e il tecnico inviato per la riparazione scopre che il video non era stato acceso o che la spina era staccata, questo significa che il luddismo sta diventando palese.[16]

Il fenomeno interessa naturalmente gli impiegati più anziani che vivono l’informatica come una minaccia alla loro leadership, ma anche molti giovani che temono la dequalificazione del proprio lavoro e, più in generale, singoli operatori che si sentono inadeguati alle nuove richieste di utilizzo di un Pc. Un intreccio plurigenerazionale e di ragioni diverse che induce ben presto molte aziende a modificare il percorso dell’informatizzazione degli uffici, classificando l’operazione non più sotto la voce di ammodernamento dei macchinari obsoleti, ma lungo la ben più complessa e difficile necessità di modificare le procedure lavorative, con il diretto coinvolgimento degli utenti finali e la ricerca di un confronto aperto alle diverse istanze. Nascono dunque società di consulenza a tutto campo, che accanto ai nuovi modelli ed al software, implementano pure le varie tappe che devono portare all’uso dei Pc. Per evitare ogni tentativo di resistenza vengono elaborati nuovi metodi, alcuni al limite del sorriso:

La prima cosa da fare è naturalmente far precedere l’introduzione dei personal o dei terminali da numerose riunioni in modo da responsabilizzare gli impiegati, i più anziani potrebbero poi collaborare con i programmatori per la stesura del software applicativo. La partita però si gioca su un piano ancora più sottile. Il dirigente deve sempre dimostrarsi piuttosto scettico sui vantaggi dell’informatica, come se  il computer fosse un’imposizione dall’alto. I corsi di istruzione poi dovrebbero essere fatti dividendo, magari con la scusa di “non lasciare l’ufficio sguarnito”, i soggetti giovani e brillanti da quelli più anziani e posati. Per la loro stessa matura, infatti, i primi tendono a primeggiare a spese degli altri aumentando l’ostilità di questi ultimi nei confronti del computer. ma il metodo migliore per ridurre questa ostilità è quello di “dimenticare” nella memoria del personal qualche giochino affascinante; è un trucco ideale  per far capire che il computer è una macchina “diversa”.[17]

Proprio perché il Pc è divenuto una risorsa ed un fattore di produzione, ci si rende conto che esso deve essere allocato in modo ottimale anche verso la individuale propensione all’innovazione e il superamento della conservazione dello status quo di ogni utilizzatore. Ancora una volta è la potente Ibm che pone con precisione il tema, legandolo alla necessità di scelte di politica industriale innovative:

È, questo, in senso lato, un problema politico, e ad affrontarlo sono chiamati i responsabili della cosa pubblica e l’intera comunità, in particolare quanti nell’ambiente informatico sono produttori o utenti di beni, di servizi e di iniziative. L’introduzione su vasta scala di una nuova risorsa non avviene in modo spontaneo e inevitabile: impone delle scelte e la tecnologia consente numerose alternative. Certamente l’informatica determinerà cambianti rilevanti nel modo di lavorare e di vivere. E forse non tutti saranno d’accordo. Nuovi modelli di organizzazione produttiva dovranno essere adottati e cambieranno anche il contenuto professionale e il modo di lavorare del singolo. E qui il salto non è politico, ma implica una nuova cultura industriale: occorre saper affrontare la trasformazione in modo che le tecnologie informatiche comportino ad ogni livello reali vantaggi per l’uomo.[18]

Da grandi a personali: ragioni del resistere

Mentre i Pc giungono intorno alla metà degli anni Ottanta nelle imprese e in alcune scuole, sussiste, persistente, la resistenza alzata da tecnici formatisi alla scuola dei primi main frame e dalle software house, che ormai percepiscono con maggiore nettezza la perdita della propria rendita di posizione, legata a fasi di programmazione ora avvicinabili direttamente dai singoli utenti o accessibili mediante l’acquisto di pacchetti software direttamente nei negozi.

Già segnalata sin dai mesi di iniziale svelamento dei Pc quale possibilità di seri ostacoli ad una corretta diffusione delle nuove macchine, la contrarietà poggia fondamentalmente su questioni di carattere tecnico: attenti a muoversi senza incrinare la fiducia verso il computer, sottili nel non porre in evidenza la minore conoscenza di programmi, linguaggi ed hardware dell’utenza dei Pc, questa schiera di resistenti di metà anni Ottanta punta sulla necessità di differenziare ancora una volta le dimensioni e le dizioni dei computer secondo l’impiego finale, partendo sin dalle loro architetture interne o dalle periferiche applicabili. Di fatto cercando di declassare i Pc a semplici terminali e data-entry al servizio del grande centro di calcono di cui sono «custodi».

Gli specialisti degli Edp aziendali cresciuti con la gestione dell’elaboratore centrale, non dismettono quindi ogni resistenza, e sottolineano da un lato  il negativo impatto organizzativo e gestionale delle nuove organizzazioni distribuite, e dall’altro evidenziando l’ineludibilità nel proprio bagaglio culturale, accanto alle tradizionali conoscenza circa l’amministrazione, il marketing o il controllo di gestione, i concetti di base dell’informatica e la comprensione su come si utilizza e si gestisce in azienda un computer. Ragioni che in realtà mostrano tutta la loro debolezza, edulcorate da altre voci che ricordano la necessità di maggiore preparazione per quanti iniziano ad avere a che fare con un Pci. Per dirla con la Rivista Ibm che ospita il testo di un docente milanese,

Se è infatti vero che  l’efficace utilizzazione della risorsa informativa in azienda non può essere ottenuta senza formare tecnici preparati e disponibili, per superare ogni resistenza è ancora più evidente che il principale fattore condizionante è proprio costituito dalla necessità di una vasta opera di alfabetizzazione informatica dell’utenza, a cominciare dai manager responsabili delle decisioni circa l’introduzione e l’uso delle nuove soluzioni tecnologiche.[19]

Oltre la difesa operata dai singoli, l’Italia vive, proprio a partire dalla metà degli anni Ottanta, una forte tensione problematica nei confronti dell’informatizzazione della società attraverso l’informatica personale. Il nostro Paese appare a molti analisti come una delle nazioni che più si preoccupano dell’elaborazione e della definizione di una cultura informatica, considerata come fondamento insostituibile di ogni sviluppo razionale del fenomeno: quasi che la tradizione umanistica – attesa al varco la galoppata tecnologica – torni a prevalere ampliando i propri orizzonti oltre la stessa cultura informatica.

Ampi strati del mondo intellettuale e filosofico prendono posizione circa i rischi dell’informatizzazione diffusa e personale, opponendosi a quanti vedono nella cultura informatica – intesa come ripensamento delle caratteristiche e sui fini di questi mezzi – la «riqualificazione» dell’uomo nei suoi rapporti d’uso con tutte le possibilità e le funzioni dei Pc[20], cultura che appare necessaria ed ancora distanze dalla maturazione che già alla fine degli anni Settanta era stata più volte invocata. Ragioni ulteriori, un secondo livello in grado di conferire alle dichiarazioni di contrarietà degli operatori un’aurea di legittimità ulteriore.

La letteratura più colta[21], non potendo ignorare il fenomeno, si attesta su posizioni di ossequio al nuovo sviluppo della tecnologia non senza sottolineare però alcuni pericoli, raggruppabili in tre classi fondamentali: 1) il rischio di disumanizzazione del lavoro; 2) il rischio di distruzione della privatezza; 3) il rischio di dipendenza eccessiva dalla macchina.

Queste le quattro sottolineature che a lungo resteranno ad aleggiare sul primo sviluppo del percorso dei Pc e assunte quale supporto alla pacifica resistenza verso la diffusione dell’informatica personale.

1 – Si manifesta una sorprendente sperequazione fra tensioni culturali, politiche, legislative e le effettive realizzazioni del settore. La ricerca ha individuato, ad esempio, una straordinaria abbondanza di letteratura italiana sul concetto di “privacy”, un carico di riflessioni culturali superiore alle stesse esigenze di regolamentazione dell’oggetto di analisi. 2 – Tra l’altro, gli studiosi italiani dimostrano mediamente un forte pessimismo nei confronti della cosiddetta “democrazia elettronica”, mentre, ad esempio, negli Usa si ha fiducia nell’informatizzazione e le si attribuiscono buone possibilità di far crescere la partecipazione e il controllo sociale. 3 – Si rivelano invece come desolanti alcune considerazioni relative alla mancanza di una cultura tecnologica in Italia, che ostacola ogni serio sviluppo nel campo dei servizi sociali: l’indagine ha individuato, infatti, scarse conoscenze del mercato, insufficienze di preparazione nel personale, approssimazioni nel valutare, da una parte, il giusto rapporto tra bisogni ed esigenze funzionali e, dall’altra, gli investimento adeguati. 4 – Nel campo del lavoro si teme la disoccupazione tecnologica, derivante da un eventuale aumento della produzione individuale rispetto a quella totale; ma intanto la robotica sta diffondendosi con successo in tutto l’Occidente, mentre segnano il passo la burotica e l’informatizzazione del terziario, soprattutto dove si applicano modelli meccanicisti.[22]

Ruoli professionali: saperi e poteri

Il giorno 23 febbraio 1983 si tiene a Milano un convegno sul tema L’informatica in tempi di povertà: accanto ai tradizionali argomenti dibattuti da tempo ed unitamente alle questioni legate al rapporto fra informatica e congiuntura economica, parte degli interventi finisce per focalizzarsi su di un argomento già affrontato negli anni precedenti ma che, con la progressiva adozione negli uffici del Pc, pare aver raggiunto definitiva maturazione: si tratta della  «crisi di ruolo degli uomini dell’Edp tradizionale», la loro difficoltà – anche umana – di riconvertire la propria mentalità e professionalità, sull’onda montante delle rinnovate tecnologie: «manca poco – scrive il cronista presente all’incontro – che si vedesse pianger sulla spalla fior di professionisti affezionatissimi al Cobol, al batch e all’Edp centralizzato in genere, mentre altri, più fieramente, gridavano “morte al personal”… o giù di lì».

Strettamente connesso risulta pure il problema della sempre più difficile definizione e determinazione dei ruoli nelle imprese, del ricollocato potere aziendale degli informatici: lo sviluppo di nuovi tool hardware e software, quello che nello stesso convegno viene esplicitamente chiamato il fenomeno delle «informatiche parallele», il coinvolgimento dell’utilizzatore finale, si intrecciano sempre più strettamente con un processo di redistribuzione degli organici nell’ambito dell’azienda medio grande. Il Pc è visto dai «resistenti» come il motore di un mutamento diffuso e intollerabile, e le possibilità aperte dai Personal sono considerate «fastidiose per la più parte degli Edp-manager».[23] Il Pc appare fonte di inaccettabili sottrazioni di potere e di controllo:

Taluni di costoro hanno persino tuonato, con accenti quasi passionali, contro la degenerazione della spesa dei personal, invocando addirittura misure restrittive e “pianificazioni” rigorose. /…/ tali argomentazioni non sono parse del tutto convincenti: a parte il fatto che si finisce col pretendere chiusure di stalla quando già molti buoi sono scappati tranquillamente, è proprio dogmaticamente vero, sempre ed ovunque, che personal a sé stanti siano uno spreco ed un’anarchica rovina? Non si andrebbe così contro quell’autonomia decisionale periferica che in molte aziende fa parte da tempo dello stile del management?[24]

La continuata resistenza della classe di esperti informatici, formatisi e prosperati sulla inacessibilità ai computer delle precedenti generazioni da parte dei non addetti, appare importante. In primo luogo perché quest’argine critico viene dall’interno stesso del mondo informatico, che non si lascia certamente irretire dal marketing e dalle pubblicità delle meraviglie: esso assume, dunque, un riconoscimento di professionalità autorevole ed espresso nel nome dell’esperienza diretta.

In secondo luogo gli oppositori trovano l’appoggio della parte più conservatrice e timorosa degli imprenditori, soprattutto nelle medie e grandi imprese, ancora non del tutto convinti dell’utilità di un’informatica così frammentata: essere ascoltati dai decisori degli acquisti aziendali è certamente posizione assai forte e non di rado determinante.

In terzo luogo perché questo gruppo non si batte contro l’informatica individuale, ma ne proponeva una «gestione» non lasciata nelle mani dell’autonomo Pc: si tratta di garantire il personal computing senza perdere il controllo centralizzato. Lo stesso carattere «anarchico» e «destabilizzante» del Pc non viene sottaciuto, insieme ai seri problemi che ciò può comportare in una corretta gestione concertata ed integrata dell’azienda e dei suoi dati.

Il tentativo resta la difesa ad oltranza dei centri di Edp che si occupano della raccolta dei dati aziendali e che provvedono alla loro codifica, alla loro immissione nell’elaboratore ed alla programmazione per secernerne nuovi dati e risultati. Qualche alleato gli esperti degli Edp trovano dunque fra  manager più anziani[25]: per quanto estranei alla cultura del calcolatore, anche perché non possono manipolarla, alcuni non rinunciano facilmente al tabulato, che rappresenta evidentemente una specie di status symbol intermedio della gerarchia e del potere aziendale: il Pc rischia di scombussolare ulteriormente gerarchie consolidatesi fra le pagine di carta impilate nottetempo dalle rumorose stampanti ad aghi.

Resistere (forse) solo per poco

La pervasività della microinformatica non manca di suscitare in modo ricorrente gli allarmi o le ironie, più o meno gravi, di quelli che vengono definiti cassandre moderne, veri »disastrografi», che disegnano prospettive inquietanti, in fondo alle quali c’è il soggiogamento integrale dell’individuo, avvinto al terminale come un Charlie Chaplin alla catena di montaggio, costretto a dar in pasto al computer tutti i dati di cui questo Moloch incessantemente si pasce, insaziabile e del tutto irrispettoso d’ogni più sacrosanta privacy.

La stampa specializzata esalta la novità del Pc, relegando le voci dissonanti alla «lagna cupa del medioevo prossimo venturo», voci di «tremebondi a valutare come un terribile segno premonitore di questo ‘portar all’ammasso il cervello’ l’idolatria di Time che, non l’avesse mai fatto, ha proclamato il personale come uomo dell’anno».

Le differenze di posizione per quanti vedono nel Pc l’oggetto del futuro, sfumano entro ambiti delimitati da differenze generazionali, e ai giovani viene riconosciuta la possibilità di un nuovo rapporto con la tecnologia:

Visto che il fenomeno in fondo favorisce l’auspicato processo della nuova alfabetizzazione, solo gli aristò vetero-informatici può dar fastidio l’idea che essa sa di massa. E se i giovani vengono allettati con i pur subdoli e sofisticati specchietti della tecnologia del desiderio rimane il fatto, senz’altro positivo, che essi sono animati dal desiderio della tecnologia. Per dominarla, almeno si spera.[26]

Vi è sicuramente, alle spalle di tutto questo, una grande spinta tecnologica industriale, la forza incoativa di un mercato che non si accontenta dei successi nel mondo del lavoro e che intende invadere anche i luoghi del privato. Un cammino sempre più insistito verso la zona del tempo libero, del servizio personalizzato, della gestione della casa, del lavoro a domicilio, dell’evasione, della cultura e del gioco che in realtà accende le ultime resistenze, facendo sorgere nuove incertezze, «tante paure di traumi culturali, che si intrecciano con ottimismi e con fedi progressiste fondate nella stessa radice di irrazionalità e di incompetenza che alimenta quei timori».[27]

Passati gli anni della novità, l’informatica e il calcolatore, suo simbolo concreto, rappresentano qualcosa di più di una tecnologia, per quanto potente e innovativa essa possa risultare. Il calcolatore entra nell’immaginario collettivo con connotazioni mitiche ed emotive, molto polarizzate in senso positivo o negativo[28], e questo probabilmente perché attraverso di esso viene oscuramente messa in crisi la radicata certezza che certe qualità e capacità, come l’intelligenza, il ragionamento e simili, nonché l’attitudine al rapporto dialogico, siano tipiche dell’uomo, anzi lo caratterizzino come essere superiore.[29]

Così, l’immagine sociale del Pc tende ben presto a divenire ambigua ed estremizzata, proponendo da un lato, l’idea di una minacciosa macchina quale strumento di manipolazione e asservimento e, dall’altro, come oggetto dalle connotazioni quasi magiche, atto a risolvere pressoché ogni problema senza sforzo. Ora non è più il timore di perdere potere da parte di dirigenti della vecchia guardia o informatici della prima ora. La tecnofobia individua ora il Pc come un nemico poiché ne rileva la capacità di alienare gli individui dalla comunità umana e separarli dalla società. In questa visione la tecnologia oscura o distorce la natura dell’uomo, ed i Pc sono incolpati di creare le circostanze nelle quali l’utente avrebbe presto interagito con la sola macchina, creando una progressiva distanza circa le proprie responsabilità verso gli altri.

Nel 2006 i Pc in Italia raggiungono il numero degli abitanti: da 820 unità a 55 milioni di macchine in un quarto di secolo[30].

1)

M di Pisa, A ritmo di mercato, «m&p Computer», settembre 1981

2)

M. Zane, Storia e memoria del Personal computer. Il caso italiano, Milano, Jaca Book, 2008

3)

R. Kling, Computerization and social transformation, « Science, Technology and Human values», n. 16, 1991, pp. 342-367; C. Dunlop, R. Kling, Computerization and controversy: value conflicts and social choiches, Boston, Morgan Kaufmann, 1991

4)

P. Nuti, L’inferno esiste solo per chi ne ha paura, « m&c Computer»,  aprile/maggio 1980

5)

M. Zane, "Perforare l'ignoto". Dal centro meccanografico al primo elaboratore elettronico: il percorso italiano, «Netpaper. Idee, cultura, tecnologia. Rivista telematica della Scuola e Università Europea», www.quipo.it/Netpaper, dicembre 1999

6)

G. Attardi, L’evoluzione degli elaboratori personali: linee di tendenza, «Informatica 70», luglio/agosto 1980

7)

P. Nuti, Un computer per uno…, «m&p  Computer», settembre 1979

8)

G. Mantovani, L’interazione uomo-computer, Bologna, Il Mulino, 1995

9)

S. Avveduto, I prossimi 6000 giorni. Formazione e occupazione vecchie e nuove, Milano, Franco Angeli, 1985

10)

A. Visalberghi, Introduzione ad Aa.Vv., Educare con l’informatica, Firenze, Le Monnier, 1985

11)

Fast, Le trasformazioni occupazionali indotte dall’evoluzione tecnologica, Milano, s.e., giugno 1981

12)

F. Momigliano, Microelettronica e occupazione, «Mondo Economico», luglio 1979; La prospettiva robotica, Dossier di «Quaderni di industria e Sindacato», n. 6, 1981; Le rappresentazioni dell’informatica attraverso la stampa quotidiana in Italia (1976-1984), «Rassegna di psicologia», n. 2/3, 1987

13)

C. Freeman, L. Soete, L’onda informatica. Nuove tecnologie ed occupazione, Milano, Il Sole 24Ore, 1986

14)

L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Torino, Einaudi, 1983

15)

Automazione d’ufficio, «Quaderni ISFOL», n.4, luglio/agosto 1985

16)

A. Pattono, Quel nemico di un computer, «Mondo economico», 20 settembre 1984

17)

Idem

18)

R. Riverso, L’informatica oggi, «Rivista Ibm», n.2, 1983

19)

Idem

20)

Il titolo del più noto volume sulla storia dei primi Pc è di per sé eloquente: F. Herbert, B. Max, Without me you are nothing: the essential guide to home computers, New York, S&S, 1980

21)

G. Friederichs, A. Schaff, Per il meglio e per il peggio. La rivoluzione microinformatica, Rapporto al Club di Roma, Milano, s.e., 1982.

22)

C. Perucchetti, (a cura di), Odissea informatica, strategie culturali per una società informatica, Milano, Jackson Libri, 1985

23)

Informatica in tempi di povertà, «Bit»,  aprile 1983

24)

Idem

25)

Indicazioni in ambito americano in C. Wilkins, R. Speirs, The innocent business manager meets the personal computer, Reading, Pap Ltd, 1985

26)

Le citazioni sono tratte da Tecnologia del desiderio, «Bit», n. giugno 1983

27)

G. Bettetini, Il segno dell’informatica. I nuovi strumenti del comunicare dal videogioco all’intelligenza artificiale, Milano, Bompiani 1987.

28)

D. Bennato, Le metafore del computer. La costruzione sociale dell’informatica, Roma, Meltemi, 2002

29)

E. de Grada, Innovazione informatica e cambiamento psicologico: problemi ed implicazioni, in Aa. Vv., Tecnologia domani. Utopie differite e transizioni in atto, Bari-Roma, Laterza, 1985

30)

M. Zane, Dizionario storico dell’informatica italiana, Brescia, Liberedizioni, 2020