Abstract
In un’epoca in cui i confini tra sogno e realtà si fanno sempre più labili, questo studio esplora l’impatto trasformativo della tecnologia sulla percezione umana e la costruzione della “surrealtà”. Partendo dal cinema delle origini fino all’era digitale, l’articolo analizza i media come “psicotropi” che hanno plasmato la nostra esperienza del mondo, creando una “surrealtà” permeata di immagini e contenuti.
Il testo approfondisce come la rappresentazione digitale, nel suo tentativo di eliminare l’imprevisto, ridefinisca il concetto di “reale”. Attraverso riferimenti psicoanalitici, viene evidenziato come l’iper-mediatizzazione tenda a sopprimere l’incidente del reale, che tuttavia riemerge come “sintomo”: un’allucinazione o un delirio che interrompe la percezione consolidata, trasformando il sogno collettivo in un bad trip individuale.
Keywords
Percezione – Perception
Media Psicotropi – Psychotropic Media
Tecnologia – Technology
Sintomo – Symptom
Surrealtà – Surreality
Credo alla futura soluzione
di quei due stati in apparenza così contraddittori,
che sono il sogno e la realtà,
in una specie di realtà assoluta,
una surrealtà, se così si può dire
(Andrè Breton – 1924)
Leggenda vuole che, alla prima proiezione del film dei fratelli Lumière Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, il pubblico, vedendo il treno arrivare a tutta velocità, avrebbe confuso illusione e realtà; colti da un’onda di panico improvvisa, infatti, molti spettatori avrebbero evacuato la sala terrorizzati dallo schianto imminente. Le immagini, per il loro realismo totalizzante e sconosciuto, avevano generato un sovraccarico emozionale insostenibile e le persone erano crollate psicologicamente. Era il 1895.
Più o meno cento anni dopo, nel 1986, viene analizzata per la prima volta quella che da quel momento sarà conosciuta come la Sindrome di Parigi; un disturbo psichico acuto che sembra colpire prevalentemente i turisti giapponesi in visita alla capitale francese. Chi ne è affetto soffre di allucinazioni, derealizzazione, depersonalizzazione, angoscia, ansia, come pure sintomi psicosomatici quali vertigini, sudorazione o palpitazione. Alcuni soggetti, particolarmente sensibili, vanno incontro a veri e propri crolli psichici, tali da dover essere fisicamente riaccompagnati in patria da medici o infermieri[1]. Il fattore scatenante sembra essere la grande differenza tra l’immagine ideale di Parigi e la città reale.
La cura è fuggire. E mai più fare ritorno.
Psicotropie
Le sostanze psicotrope agiscono sul sistema nervoso, modificando sensazioni corporee, comportamenti e stati d’animo. Attivano varchi sensoriali, espandendo i confini del mondo fisico e immergendo il soggetto in universi interiori altrimenti inaccessibili. Generano realtà che si configurano come costruzioni percettive, modellate da stimoli esterni capaci di intervenire direttamente sugli stati di coscienza. Modulano il reale, riformulando la relazione tra il soggetto e ciò che lo circonda. Ci fanno vivere un sogno ad occhi aperti.
La fotografia, alla stregua di un oppio artificiale, introduce nuove prospettive e percezioni di un mondo che fino a quel momento può essere visto solo ad occhio nudo[2]. Molto di più fa il primo cinema europeo. La cinepresa è «un’occhio ad alta velocità» in grado di «rendere visibile l’invisibile, chiaro l’incerto e manifesto il nascosto»[3]. E le giustapposizioni dei fotogrammi nel montaggio delle attrazioni, esattamente come LSD, colpiscono il sistema nervoso centrale e cerebrale dello spettatore. Attraverso uno choc sul pensiero, generano un’iperstimolazione sensoriale che, esattamente come un’allucinazione indotta, dà vita ad una sorta di nuovo inconscio, tecnologicamente prodotto[4]. In questo processo «Il movimento automatico suscita in noi un automa spirituale che a sua volta reagisce su di esso. […] un automa soggettivo e collettivo per un movimento automatico : l’arte delle masse»[5]. Il cinema delle origini, insomma, genera trip collettivi per l’occhio pubblico, esattamente come un allucinogeno crea visioni per l’occhio privato.
Ma quando il cinema diventa una vera e propria industria di massa e «le sale cinematografiche si trasformano in “campi di addestramento” che allenano le masse a controllare la paura di ciò che non conoscono o piuttosto […], di ciò che non esiste»[6], gli effetti psicotropi, inizialmente dirompenti, vengono progressivamente normalizzati. Lo shock visivo diventa routine, e la fascinazione per l’illusione si trasforma in assuefazione.
Con l’avvento della televisione questa dinamica si amplifica su scala globale; il mondo si trasforma in un flusso ininterrotto di immagini, che non è un resoconto e nemmeno una registrazione, ma un tentativo di worldbuilding, costruito per saturazione e ridondanza visiva. Le immagini televisive, proprio in virtù della loro apparente neutralità, finiscono per occupare l’intero campo percettivo e diventano così la sostanza stessa della visione, «perché in realtà non si tratta più realmente di informazione in immagini ma di materia prima della vista, una materia prima Il più possibile affidabile»[7]. Così, se il cinema opera come un dispositivo di fascinazione collettiva, la televisione si configura come un apparato di controllo sensoriale, un meccanismo in grado di plasmare l’esperienza percettiva globale, che riduce il mondo a una sequenza ininterrotta di immagini. Analogamente, la diffusione capillare delle tecnologie audiovisive, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, inaugura un nuovo modo di abitare la realtà. Le videocamere e i walkman lungi dall’essere semplici dispositivi di registrazione e riproduzione, si costituiscono come «realtà e apparenze offerte in kit»[8], offrendo la possibilità di mettere in scena, in un atto privato, una rappresentazione intima che riorganizza la propria esperienza del mondo.
Se i dispositivi analogici come videocamere e walkman funzionano ancora come estensioni sensoriali individuali, il digitale, negli anni Novanta, introduce un sistema di proliferazione incontrollata. Le immagini non sono più legate a un supporto fisico o a un contesto privato: diventano nodi di energia, capaci di attivare nuove modalità di fabbricare e articolare l’esperienza del reale. Improvvisamente, i punti di trasferimento si moltiplicano: gli schermi diventano onnipresenti, mentre le immagini si sganciano dal vincolo della registrazione per entrare in un ciclo di copiatura e dispersione immediata, eseguita con un semplice gesto del dito. Così, il mondo diventa flusso ininterrotto di dati, pura circolazione, una materia modulabile in tempo reale[9]. Mentre noi ci trasformiamo in registi e attori smaterializzati di un cinema-universo in editing continuo.
Se, a inizio Novecento, l’attore di Pirandello davanti alla cinepresa si ritrovava in esilio da sé stesso[10], di questo esilio noi ne abbiamo fatto un’enclave; siamo tutti immersi nel sonno profondo di una percezione mediata da milioni di schermi e scrolliamo immagini su immagini di un cinema-mondo il cui corpo è continuamente estrapolato ed editato, e poi rilanciato e ancora filtrato, per finire proiettato e innestato nei nostri occhi in versione attutita. Usiamo lo smartphone come uno scudo davanti a noi, e con gesti pacificatori che superano l’alienazione di moltissimi gradi, riduciamo noi stessi e il mondo a #contenuto. In un moto di perpetua morphizzazione, migriamo da un dispositivo all’altro, chiusi in un «trip quasi permanente, collegati a un deck da cyberspazio su misura che proietta la nostra coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale»[11]. Creiamo e percepiamo il nostro mondo simultaneamente. E, presi per mano da reti neurali artificiali che intuiscono i movimenti delle nostre sinapsi e ne deviano le traiettorie inesorabilmente, contribuiamo alla creazione di una realtà-sogno apparentemente su misura.
L’incidente del Reale
Per Lacan la realtà è una costruzione simbolica[12], ha le caratteristiche della permanenza e della ripetizione ed è stabile. Il reale, al contrario, si manifesta in quella rottura imprevedibile che ci sottrae alla ripetizione e che non sta nel mondo, ma nel soggetto, ed è una rottura tra la percezione e la coscienza. In un’allusione alla casualità accidentale di Aristotele, Lacan chiama questo doloroso incontro con il reale la tuchè[13].
Questa concezione lacaniana del reale come qualcosa che deve essere represso dalla realtà può essere messa in relazione con la riflessione di Edward Said sul potere delle rappresentazioni culturali. Nel suo libro Orientalismo, infatti, facendo riferimento alla “scienza del concreto” di Claude Lévi-Strauss, Said sottolinea come il bisogno di ordine della nostra mente renda necessario catalogare e collocare ogni entità, cosicché abbia una propria identità, funzione e significato in relazione con noi e il nostro sistema di pensiero[14]. Questo tipo di tassonomia, della quale pare proprio non possiamo fare a meno, sebbene si basi su dati reali, non rimanda ad essi. Ciò che viene catalogato non è mai il dato empirico in quanto tale: è piuttosto una costruzione culturale, che ha a che fare con un sistema di sguardi che rimanda sempre a un ordine simbolico e interpretativo. Un realtà.
La fotocamera digitale del sistema culturale occidentale ha ricostruito completamente il mondo, andando a formulare una surrealtà in costante modulazione che sembra rispondere solo ad un principio memetico. E come tutti meme viene ripetuta di continuo, è virale, e ci invade completamente. La visione digitale, però, contrariamente a quella analogica, è priva di negativo; «la messa a punto tecnica è perfetta, non c’è posto per l’evanescenza, il tremito, il caso»[15]. Così #parigi sono solo i selfie su sfondo Torre Eiffel, che rimandano alle foto panoramiche delle luci dei boulevard, che rimandano al Moulin Rouge, che rimandano al film Midnight in Paris che rimanda al Meraviglioso Mondo di Amelie, il tutto sotto l’egida dell’omonimo filtro Instagram tendente al rosino.
Il mondo ridotto ad hashtag limita, fino a quasi eliminare, l’incidente del reale. O meglio, la sua emivita è talmente breve da essere del tutto trascurabile. Almeno fino a che non ce lo ritroviamo veramente davanti. Ma è un’eventualità rara, quasi come la Sindrome di Parigi.
Sintomi
Il reale però non cessa di esistere; si smaterializza, trasformandosi in un sintomo. Il termine sýmptōma, in greco, significa accidente: un evento imprevisto che irrompe nel flusso dell’esperienza. Nel linguaggio medico, il sintomo è l’espressione di una condizione patologica, il segnale di un disturbo sottostante. Tuttavia, può anche essere inteso come il presagio di qualcosa che potrebbe ancora manifestarsi.
Il reale, in quanto sintomo, si configura come virtuale, qualcosa che esiste soltanto in potenza. Non soltanto turba il discorso di realtà nel quale siamo immersi, ma alla fine del processo di mediatizzazione, in un mondo ricostruito artificialmente, il suo carattere traumatico diventa insostenibile e «siamo incapaci di integrarlo in ciò che sperimentiamo come la nostra realtà, e siamo dunque costretti a percepirlo come un’apparizione angosciante»[16]. Il reale, insomma, si riformula in spaventosa allucinazione e tormentato delirio. Un bad trip.
Bibliografia
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Arianna Ferrari
(Arianna Ferrari è artista e scrittrice. La sua ricerca attuale indaga la promiscuità sistemica delle reti come strumento di resistenza alla tecnopolitica contemporanea. Ha presentato i suoi lavori in contesti internazionali, tra cui ]Performance Space (Londra), Defibrillator Gallery (Chicago) e Onassis Cultural Centre (Atene). È inclusa in pubblicazioni indipendenti e accademiche, tra cui Keep it Dirty(Punctum Books, New York), EmergencyINDEX (Ugly Duckling Presse, New York), King’s College London e Universitat Politècnica de València. Attualmente è dottoranda in Arti Visive e Umanesimo Tecnologico presso l’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia.)